La partita della Supercoppa italiana tra Juventus e Lazio in Arabia Saudita (vinta dalla squadra romana per 3 a 2) ha di nuovo riacceso le polemiche sul rispetto dei diritti umani del Paese, che ha ospitato l’evento per la seconda volta. Prima del match, Hatice Cengiz, fidanzata del giornalista saudita Jamal Khashoggi (ucciso nell’ottobre 2018 nell’ambasciata saudita di Istanbul, dove era entrato per ottenere i documenti necessari per sposare la donna, che stava aspettando fuori dall’edificio) era stata a Roma per parlare alla Foreign Press Association, dopo essersi rivolta al comitato per i diritti umani del Senato italiano.
«Di solito non seguo il calcio, ma so cosa ne pensate voi italiani», ha spiegato. «Sono davvero confusa all’idea di due squadre italiane che giocano in Arabia Saudita. Capisco che ci sia stato un invito e ci sia un aspetto economico da considerare. Capisco anche che non è possibile boicottare la partita, dato che tutto è già programmato, ma non vedete che il calcio, che amate veramente, viene utilizzato politicamente, per promuovere il Paese? Ho il cuore spezzato da quello che sta accadendo». Anche come Amnesty International e Usgrai chiedevano che la partita non fosse disputata in Arabia Saudita, oltre che per l’omicidio di Khashoggi (in cui è coinvolto, per sua ammissione, il principe erede al trono, Mohammad Bin Salman), anche per il mancato rispetto dei diritti delle donne nel regno.
Durante la partita, alle donne è stato permesso l’accesso sugli spalti allo stadio di Riad: una dimostrazione delle riforme da esibire di fronte a tutto il mondo. Eppure proprio le attiviste che si sono battute per i diritti delle donne sono ancora in carcere. Pensiamo a Loujain Al-Hathloul, fra le più impegnate per l’eliminazione del divieto di guida alle donne: è stata torturata in prigione ed è ancora detenuta. A fine novembre sono finiti in carcere molti giornalisti, tra cui anche Zana Al-Shahri, che scrive per il magazine Al Asr, e Maha Al-Rafidi, firma del quotidiano Al Watan. Nassima Al-Sada, scrittrice, membro della minoranza sciita, è sottoposta a regime di isolamento. Di Samar Badawi era stata annunciata, via social network, l’esecuzione, ma Amnesty International ha confermato che è viva ma detenuta in carcere, per scontare una condanna a vent’anni. L’attivista lottava contro il «sistema del guardiano», la figura maschile, un familiare, che controlla la vita delle donne.