La prima volta che abbiamo parlato con Barbara Bonansea, attaccante della Juventus e della nazionale, abbiamo trovato la sua pagina Facebook e lei, allora al Brescia, ha risposto direttamente da lì. Questa volta ha un libro appena uscito (Il mio canto libero scritto con Marco Pastonesi edito da Rizzoli) e le parliamo con il tramite della squadra bianconera. La disponibilità è la stessa, ma basterebbe questa differenza, solo nell’approccio, a dimostrare quanto sia cambiato il mondo di Barbara Bonansea e di molte donne dello sport italiano.
Il 2019 è stato l’anno della svolta per lo sport al femminile, il primo in cui sono arrivati riconoscimenti fondamentali. È aperta per le atlete italiane la via del professionismo grazie a un emendamento alla manovra di bilancio che ha introdotto un incentivo per le società che stipulano contratti di lavoro sportivo aprendo loro l’accesso alla legge che regola i rapporti con le società, la previdenza sociale, l’assistenza sanitaria, il trattamento pensionistico. Ancora non è arrivato per certo, ma solo l’anno scorso sembrava utopia parlare di un possibile professionismo.
«La mia vita di tutti i giorni non è cambiata», racconta Barbara Bonansea, «forse faccio qualche allenamento in più. La mia vita privata è la stessa. Adesso però la gente mi riconosce». È cambiato il modo, anche calcistico, attorno a lei. «La Juve, l’organizzazione, la gente che ci viene a vedere allo stadio, è tutto moltiplicato. Si può fare ancora tanto, ma siamo sulla strada giusta».
Il mondiale, in cui l’Italia è arrivata fino ai quarti di finale, è stato fondamentale. «Già la nascita della Juventus femminile aveva dato un segnale forte, poi il mondiale ha fatto il resto con numeri alti davanti alla tv in tutto il mondo. Quando sono tornata dal mondiale mi riconoscevano dappertutto perché abbiamo fatto appassionare la gente e dimostrato di fare un bel calcio».
Il calcio femminile in prima serata sulla rete ammiraglia della Rai era un sogno che sembrava impossibile in un paese in cui le bambine che giocavano a calcio erano, fino a qualche anno fa, mosche bianche. «Io abitavo in un paesino di provincia, non conoscevo il calcio femminile, ci volevo giocare perché mi piaceva. Era passione pura. Adesso i genitori hanno un’idea più chiara del calcio femminile e ci sono modelli da seguire anche se c’è ancora lo stereotipo della calciatrice mascolina».
Barbara Bonansea ringrazia, nel libro e nella vita, quel calcio che non riesce a smettere di guardare quando non lo sta facendo lei. «Il calcio mi ha fatto diventare quella che sono. Non so cosa sarei diventata senza. Mi ha fatto conoscere persone. Mi ha fatto capire le cose importante. Una squadra è lo specchio della società».
A due donne dedica il libro, nonna e nipote. La prima per l’esempio, la seconda perché un giorno possa costruire anche lei la sua vita sulla passione. «Avevo tre o quattro anni al massimo, e i miei pomeriggi trascorrevano con gli occhi incollati al prato, attratta da un desiderio fortissimo di giocare, ma ancora muto. Il primo a dargli voce fu l’allenatore di mio fratello: un giorno si avvicinò e mi chiese se non ero stufa di guardare gli altri giocare. Sono entrata in campo e, da allora, nessuno è più riuscito a farmi uscire».
Gli stereotipi non le fanno paura. «È toccato a tutte sentirsi dire che, solo perché femmine, non eravamo capaci. Non dovevamo giocare con i loro figli. Erano i genitori, non i figli a fare delle differenze. Per i bambini non c’era problema, ci divertivamo».
Si diverte ancora l’attaccante azzurra che ha come modelli Cristiano Ronaldo, Filippo Inzaghi e Zlatan Ibrahimovic. «A me piace vincere e il 2020 me lo auguro come il 2019 con vittorie con la Juve e la qualificazione per l’Europeo con la nazionale. E spero che sempre più gente si appassioni e venga allo stadio: sono i nostri fan che ci fanno sentire importanti».