Questa intervista è tratta dal numero di Vanity Fair in edicola.
Il lago di Garda visto dalla casa di Salò di Susy Laude è una distesa blu chiusa tra i suoi monti e paesini che appena la luce cambia si fa celeste di luccichii, e se arrivano delle nuvole diventa nero pece, opaco da spavento. Lei, seduta al tavolo della cucina, riempie il vuoto di tutto quel bianco intorno lasciato da una madre scomparsa troppo presto unendo, come esistenza impone, voli e cadute, tragedia e commedia. E sembra di stare nella scena finale dei Giorni dell’Abbandono, quando Margherita Buy realizza che la paura forse o almeno a tratti scompare, se pensiamo che in fondo altro non siamo che «passare della morte nel rumore confuso della vita, gioie insieme a fitte di dolore, cuore che invecchia e ringiovanisce all’improvviso».
Occhi di ragazza, ultimi anni dal destino sgarbato. Con una mamma «bella come Mariangela Melato» che si ammala di tumore al cervello e muore, un papà che prima di invecchiare di colpo e senza scampo anche lui, prova a rubarle in tribunale questa casa in cui siamo e in cui ora lei si è trasferita con il compagno, Dino Abbrescia, conosciuto nel 2008 su un set che lei – per la parte – era già vestita da sposa, e lui l’ha squadrata e con lo sguardo pieno le ha detto: «Ma lo sai che io con te un figlio ce lo farei?». E così è stato. Niko è nato il 4 maggio del 2009 ed è a pochi passi da noi che gioca su un grande tappeto e va convinto a fare i compiti. È un pomeriggio insieme raro e come tanti. Con dei film che stanno per uscire (Appena un minuto di Francesco Mandelli, Se mi vuoi bene di Fausto Brizzi, Uomini D’oro di Vincenzo Alfieri), e la giostra di nuovi che girerà, dentro una sensazione di riparo «dopo avere perso tutti». «Questo è il mio nido, il mio tornare, ricucirmi dopo un esilio. Negli anni Venti e Trenta venivano a curarsi in questi luoghi di Gabriele D’Annunzio dove sono cresciuta sulla spiaggia del Rimbalzello, chiamata così perché si racconta lui ci andasse a lanciare i sassi nell’acqua». Anche noi andiamo per associazioni: attraversiamo un bosco. «All’Accademia d’arte drammatica, a Roma, portai la Pioggia nel pineto, cinque pagine di poesia in onore delle mie radici».
Senza, siamo poca cosa. Che cos’è un’eredità?
«C’è quella dei gesti, dei valori, dell’amore e del sangue: di mia madre. Quella delle cause: di mio padre. Si separarono dopo oltre trent’anni di matrimonio perché lui, che qui vendeva barche – cliché dei cliché – finì con la sua segretaria più giovane. Mia madre da signora un po’ naif e speciale qual era uscì da quella porta. Lui, così, prese ad abitare qui con lei. Quando è morta mi arriva una raccomandata. E da quella scopro che voleva portargliela via del tutto con convocazioni in tribunale a cui lei non riusciva a presentarsi perché si stava curando, perché stava morendo. Ho preso io la causa in mano (avevo già perso mia madre, non potevo perdere anche la nostra casa), e dimostrando ambulanze e chemioterapie, l’ho vinta. Ma come immaginerete è stato tutto fuorché bello».
Si riconciliò mai con suo padre?
«Lo andai a trovare in clinica, prima del suo funerale. Parkinson e Alzheimer insieme l’avevano reso ormai irriconoscibile. Ma una cosa me l’ha detta chiara, quando gli ho preso le mani. L’ho guardato: “Ma ti rendi conto di quello che hai fatto?”. Mi ha risposto: “Quando uno è un verme, devi lasciarlo come un verme”».
Che cosa l’ha fatta innamorare invece di Dino?
«Alla fine della serie, mi ero appena lasciata con il mio ex, stava morendo il mio migliore amico, pesavo 46 chili. Lui mi telefonò: “Pensi di volere rimanere barricata sul divano a piangere o esci con me a prendere una boccata d’aria?” Andammo a vedere Gomorra al Greenwich di Testaccio. Pensai: “Basta, il tempo è un bastardo, tocca goderselo, se me la chiede gliela do, subito”. Io, che avevo avuto due fidanzati in dieci anni. Salgo sul motorino, metto il casco, sto per andare, saluto, faccio tre metri, torno indietro: “Posso venire da te a far l’amore?”. E lui: “Tu mi sa che hai più bisogno di coccole”. Dopo un mese abbiamo deciso di fare un bimbo. E non ci siamo più lasciati».
Com’è stato, quand’è venuto al mondo?
«Gli ho scritto sempre, fin da quando l’avevo in pancia. Perché così facevo anche con mio padre, bambina. Gli lasciavo una lettera sul cuscino, la sera. E lui mi rispondeva al mattino dopo. Con Niko, Dino mi regalò un camper. Andammo in giro per l’Italia da nord a sud e ritorno, nei suoi primi quattro mesi di vita. Non voleva m’ingannasse neanche per un minuto il falso mito che una montata lattea possa bloccare una donna».
Fermarsi è una parola difficile.
«E noi non lo facciamo mai. Scendiamo spesso in Puglia, dove Dino è nato e c’è mia suocera, nonna Rosa, passato da sarta, che nonostante viva con la pensione del marito, ogni volta mi porta nella Rosangela boutique, la più chic di Valenzano, costringendomi al capo più bello, che piano piano pagherà poi a rate».
Ci vivrebbe mai, lì?
«Vengo da qui. Ho gli occhi verdi come il colore del lago. E ci nuoto dentro, tenendoli aperti. Se mi tuffo nel mare, invece, bruciano, devo tenerli chiusi».
Vi sposerete mai davvero?
«Dino me l’ha chiesto la prima volta che ero al settimo mese di gravidanza al reparto cessi e bidet di Leroy Merlin. La nostra passione per il brico ci porta più tra quegli scaffali che al cinema. Gli risposi che non volevo crederci che lo stava facendo lì. Ma, scherzi a parte, credo che il matrimonio sia un culto religioso (e della propria storia personale) importante. E ogni volta che lo immagino, mi sovviene il prato verde con le 350 rose bianche intorno alla bara di legno grezzo come quella di Giovanni Paolo II ma di mia madre, Qui reste y’il de nos amours di Stacey Kent che va di sottofondo, il Sonetto 116 di Shakespeare che leggemmo in quella occasione, la sua carezza da cui mi scansai, adolescente, e che chissà che darei ora per riavere. E allora penso che sono ancora troppo vicini i funerali per dare una festa. Anche se d’amore».