Un calice, il bancone di un bar a lenire le ferite del cuore ed una città lontana, simbolo dei sogni che non torneranno più. Los Angeles, disponibile in digitale da venerdì 4 ottobre, non è una canzone. È la fotografia di uno stato d’animo, del particolare che si fa universale. Perché Stash, nel suo scrivere convulso, racconta di frasi (e di fasi) valide per tutti, per chi abbia un’età compresa tra i 25 e i 35 anni, ché «dire che ho già passato i 30 non sta bene». Ride, il frontman dei The Kolors, e nella sua voce si trova una punta di orgoglio quando spiega come la crescita non sia stata solo anagrafica. «Oggi, abbiamo voluto continuare il percorso intrapreso con Pensare Male», dice il cantante, che, per il nuovo brano, accompagnato da un video musicale diretto da Gianluigi Carella, ha voluto con sé Gué Pequeno.
Perché, nel proliferare della trap, ha scelto la vecchia guardia dell’hip-hop italiano?
«Credo che chiamare uno dei ragazzini che oggi fa trap avrebbe provocato il disappunto dei nostri fan. La collaborazione sarebbe passata per una bieca strategia dei numerini, per il tentativo di finire primo su Spotify. Io, quanto meno, l’avrei liquidata così, se fossi stato fuori dal gruppo».
Se non è strategia, cos’è?
«Il tentativo di apparire quanto più naturali possibili, di esprimerci per quello che siamo. Los Angeles è un pezzo interamente suonato. In Pensare Male, ancora, avevamo voluto tenere qualche virtual instrument. Qui, abbiamo campionato sonorità anni Settanta e Ottanta, abbiamo preso in mano gli strumenti».
Gli Ottanta vanno di moda, ultimamente.
«Forse, ma la verità è che io e il batterista siamo cugini. I nostri papà sono entrambi musicisti, esplosi negli anni a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta. Era il 1979, quando mio padre si è comprato una Stratton ed io ho ereditato le sue vecchie chitarre».
Dunque, Los Angeles è un omaggio ai tempi che furono?
«Non direi. Quel periodo, per i nostri genitori, ha rappresentato il momento di punta e, volenti o nolenti, credo si sia permeabile dal punto di vista artistico. Io, personalmente, sento di dover ringraziare mio papà».
Per cosa?
«Per avermi, inconsapevolmente, fornito l’ispirazione senza mai contaminare il mio percorso artistico. Mio padre è molto diverso da me, ma mai una volta ha cercato di influenzarmi. Al contrario, mi ha sempre incentivato a coltivare e nutrire la mia identità: ad essere Stash, non “il figlio di”».
Oggi, suo padre è contento del cantante che è diventato?
«È contentissimo della nuova piega che i The Kolors hanno preso. Ritrova nella nostra musica suoni che ricorda bene. A volte, mi sorprendo a chiedergli una mano. Per me, mio padre non è un chitarrista, è il chitarrista. E, adesso, con una direzione chiara in testa non ho timore di ricevere consigli».
Temeva di essere plagiato, prima?
«Non so, oggi, però, sono pronto a ricevere l’influenza altrui. Mi piace chiedere pareri, non per vedere condizionato il mio percorso, ma per vedere crescere un progetto che non ha nulla di strategico. Sono io, oggi. Sono pronto a mettermi alla prova su tutto, sono pronto a cambiare convinzioni che, un tempo, erano radicate nella mia testa».
Tipo?
«Diciamo solo che ho imparato a fidarmi di un gusto che non è per forza il mio o quello dei The Kolors, ho capito come fare tesoro dell’esperienza altrui».
Anche di quella di Gué Pequeno?
«Gué lo conoscevo già, è qualche anno che siamo amici. Spesso, ci scambiamo messaggi. Non abbiamo, però, mai parlato di una collaborazione. Quando gli ho chiesto la prima volta cosa ne pensasse di Los Angeles ho scoperto in lui un gran professionista e un gran signore».
Un gran signore?
«È stato educato, preciso, corretto in ogni circostanza. Io avevo il timore che il mio brano puzzasse un po’ troppo di sala prove per Gué».
Invece, la vecchia scuola l’ha trovato buono. La trap le piace?
«Credo che i nuovi mondi, specie in musica, non abbiano mai vita facile. Pensi a Frank Sinatra, a quanto diceva di detestare Elvis Presley. Dopo aver speso tutte le sue energie in televisione, a parlar male del nuovo, ci ha fatto un pezzo insieme».
Questione di tempo, quindi.
«Alla trap si rimprovera l’utilizzo di una ritmica schematica, si rinfaccia l’uso dell’autotune, come se l’autotune, da solo, potesse rendere intonata una persona. Glielo dico, da Daniele dei The Kolors non verrà fuori un bel suono nemmeno con l’autotune (ride, ndr). Dico questo per dire che, quando alla chitarra e all’amplificatore, si aggiunse il pedale della distorsione, questo venne demonizzato come Satana. Poi, però, quel pedalino ha condizionato il mondo».
E la musica è morta, o così dicono i detrattori.
«Trovo che il pop sia morto, che abbia smesso di esistere per come lo si conosceva un tempo».
Scusi?
«Pop è ciò che è popolare, non è un genere con sonorità codificate. Fino alla fine degli anni Novanta, ci si basava sulle melodie: era pop tutto ciò che era cantabile e arrivava al popolo in maniera diretta. Adesso le nuove generazioni ci dicono che non è più così. Il pop è più di nicchia del non pop».
Los Angeles è pop?
«È un brano scritto senza strategie, senza mire. Non è viziato né dal mondo radiofonico, né da quello televisivo».
Ogni tanto, però, questi discorsi ricordano la favola della Volpe e l’uva…
«Non voglio nascondermi dietro un dito, voglio solo dire che quando abbiamo fatto un brano con l’intento di conquistare la vetta delle classifiche e quando, magari, ci siamo riusciti, non lo abbiamo trovato poi così bello. Bello è esprimersi e, alle volte, restare sorpresi dei risultati».
Si riferisce a Pensare Male?
«Quello è stato un brano scritto con la consapevolezza di non poterne fare una hit. Credevo fosse troppo complesso: aveva dentro i Daft Punk ed era suonato quasi per intero. Invece è stato primo nelle rotazioni radiofoniche per settimane. E quella è la vera soddisfazione, beccare in radio una canzone che non rispecchi i canoni del pop attuale».
Come l’ha scritta Los Angeles?
«Come sempre, sono partito da un provino in inglese. Più spesso, mi capita di partire da un provino in fake english».
Vale a dire?
«Usi parole in inglese, l’una dopo l’altra, senza che il discorso significhi nulla. Credevo fosse una cosa mia e, un po’, me ne vergognavo. Poi, a Manchester, ho conosciuto Matty Healy dei 1975 e lui mi ha detto di usare questa stessa tecnica: ci si basa sul ritmo e si butta fuori una parola, intorno alla quale poi si scrive un testo. Così ha confezionato Chocolate».
Los Angeles parla di una distanza che sembra metaforica.
«Lo è. La distanza ha sempre caratterizzato il mio percorso. Sono cresciuto a Napoli, poi mi sono spostato a Grosseto, sono tornato a Napoli e partito per Milano. Ho costruito rapporti in ciascun luogo, alcuni fraterni. Me li sono portati dietro, nonostante i chilometri. Con la mia ex storica, ho cominciato una relazione, poi durata dieci anni, a distanza, lei a Napoli, io a Milano. è paradossale, ma la distanza mi è molto vicina».
E ha un’accezione quasi positiva, nel brano.
«Ce l’ha, la distanza si rivela in qualche modo stimolante. Non sono i chilometri a tenerci distanti da qualcuno, da qualcosa, da qualche posto».
E cos’è?
«Sicuramente l’oggetto che in questo momento sta registrando la mia voce (un cellulare, ndr). Lo smartphone contribuisce tanto ad alimentare la solitudine. Quella è la vera distanza: condividere il letto e stare l’uno a guardare una partita di calcio e l’altra la chat di Whatsapp con le amiche».
Cosa c’è, oggi, nel futuro dei The Kolors?
«È questione di mesi e usciremo con un nuovo album, che porterà più colori nella palette inaugurata lo scorso anno, una palette artistica priva di strategie e influenze mediatiche».
Televisione ne farà ancora?
«Sicuramente: non so se rifarò Amici, ma non lo escludo. Non mi ha ancora chiamato nessuno, ad oggi, ma non credo che il ruolo di professore o di giudice possa intralciare la mia carriera artistica. Sono cose molto distanti: qui sono parte dei The Kolors, porto in musica un mio messaggio. In tv, sono Stash, metto la mia esperienza al servizio dei sogni altrui».
Una cosa come Morgan che racconta i Queen la troverebbe più consona?
«Quella trasmissione mi è piaciuta tantissimo, perché ha saputo incrocia la televisione con il messaggio artistico di Morgan. È un format utile a scoprire un cantante e, al contempo, il bagaglio culturale di chi lo racconta».
La farebbe?
«Sì».