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Micaela Ramazzotti: «Faccio meglio le crostate»

La periferia romana. I «provini» da bambina nello specchio dell’armadio di casa. L’ex «ragazza carina dei fotoromanzi che non sarebbe arrivata da nessuna parte» è andata lontano. E ha capito che cosa, nella vita, fa davvero la differenza
Micaela Ramazzotti sulla cover di Vanity Fair n. 39
Micaela Ramazzotti sulla cover di Vanity Fair n. 39
Micaela Ramazzotti sulla cover di Vanity Fair n. 39
Micaela Ramazzotti sulla cover di Vanity Fair n. 39
Micaela Ramazzotti sulla cover di Vanity Fair n. 39
Micaela Ramazzotti sulla cover di Vanity Fair n. 39

Una bambina in una stanza. Pomeriggio d’estate, Axa, quartiere periferico di Roma, una distesa disordinata di case e palazzi prima del mare. In cortile, i bambini giocano e schiamazzano. Più in alto, nel grande condominio e per la precisione nella stanza dei genitori, la bambina sta seduta in silenzio dentro a un armadio. «Ho cinque, massimo sei anni», racconta oggi, «e mi guardo nei due specchi delle ante aperte». In uno c’è una nicchia, forse uno strapuntino dove si accomoda. Mentre lo racconta, Micaela Ramazzotti assume la stessa posa del tempo: ginocchia vicine al petto, braccia che le stringono. «Mi guardo allo specchio, sorrido, piango, provo tutte le facce possibili. Non mi piace giocare con le bambole. Adoro, invece, quel momento di segreta contemplazione. Ho l’età che oggi ha mia figlia Anna. E sono sola. Mi diverto a fare una faccia più di tutte le altre: quella della lunatica. Funziona così: tengo gli occhi aperti finché non scendono le lacrime. A quel punto, mi dico, che brava che sono, sono un’attrice. Invece non ho ancora capito niente: perché se vuoi davvero far piangere, devi prima imparare a far ridere».

Figlia di un vigile urbano e di un’impiegata, cresce in due locali, dorme sul divano-letto in soggiorno e a 13 anni capisce che bisogna scappare. Al più presto possibile. Non tanto per la mancanza di spazio. Ciò che le interessa è il raggio d’azione. La prima via di fuga arriva poco dopo, quando invia una foto a un giornale per partecipare ai fotoromanzi.

Tutto è iniziato con un fotografo, un flash e dei modelli.

«Sì. E non è stato per niente bello. Ecco la scena: me ne sto immobile per strada, a un centimetro da un ragazzo carino mentre fingo di dargli un bacio. Sembriamo due manichini sgangherati. Dall’altra parte, oltre una troupe ridotta all’osso, schierati come un branco ci sono tutti i vicini del quartiere. Ridono e da quel momento io divento quella dei fotoromanzi, la ragazza carina che non arriverà da nessuna parte».
Invece sono arrivati Carlo Verdone, i Manetti Bros. e la parte di Zora la vampira.«Certo, ma quando inizi non ti devi mai aspettare niente. Perché non sai mai dove arriverai. Perché i sogni non partono col ciak della prima volta. E quando si realizzano, non hanno niente a che vedere con quello che ti immagini appena ti butti nel vuoto. Io sapevo solo che scappavo da una recita, la mia vita di quartiere, che era un film che non mi piaceva. Ovvio, dopo Zora ero finalmente un’attrice, una che ce l’aveva fatta. Ma non era finita, anzi. Perché i cliché sono sempre dietro l’angolo di ogni scelta, di ogni carriera. E io non ero l’attrice rotonda, col davanzale rinascimentale. Risultato? Ai provini non piacevano la mia voce, il mio fisico, quella mia strana figura un po’ da biondina americana».
Che ha fatto allora?
«Mi sono inventata la vita. Mi sono inventata un altro personaggio. Come ho sempre fatto. Come bisogna sempre fare. La bionda svampita non funziona più? Allora, mi sono detta, infilati nelle pieghe delle donne problematiche, vessate, fragili, meravigliosamente imperfette. Ed è arrivato Non prendere impegni stasera di Gianluca Maria Tavarelli. Da quel momento è stato come col jazz, tutto sembrava una naturale improvvisazione, una serie di bellissime variazioni sul tema. E non è finita, perché anche l’imperfezione può diventare un cliché. Quindi mi ritingo di moro e divento una donna forte e determinata. E poi oggi ritorno bionda per Vivere, il nuovo film di Francesca Archibugi. Sono sempre le mie tante facce diverse. Con una sola differenza».
Quale?
«Lo sguardo. Che non punta più alla bambina allo specchio. Ma agli altri. La carriera, questa carriera mi ha insegnato a guardare in alto, oltre i miei confini. Lo ripeto in continuazione: staccate gli occhi da quei maledetti smartphone. Se passi la vita a guardare lo schermo del telefono e l’orizzonte dei social ti rassegni a un percorso chiuso, a una bellezza stereotipata, a una realtà fittizia. Non solo nel cinema, soprattutto nella vita. Io penso che imparare a guardare gli altri, alle loro imperfezioni sia la chiave di volta per capire meglio noi stessi e alla fine per imparare a perdonarci, ad accettare le nostre imperfezioni. Se non si fa così, si finisce col vivere in un luogo arido, fasullo e pieno di paura».
Si riferisce al populismo, alla paura del diverso, a certo clima politico di odio?
«C’è paura di tutto. Dei diversi. Dei matti. Degli omosessuali. Delle ragazze rom. Dell’africano. Il ruolo che ho interpretato nella Pazza gioia mi ha costretta a frequentare persone con disturbi mentali, a vivere da vicino una realtà di emarginati. Ecco, ho alzato lo sguardo appunto. Appena sono uscita dai miei confini, ho vissuto in prima persona il peso dello stigma del matto, l’abisso dell’imperfezione. Perché quando ti ricoverano e poi, se tutto va bene, torni a casa, diventi lo strano, quello di cui bisogna avere paura. Dopo questa esperienza, sono diventata testimonial e ho appoggiato “E tu Slegalo subito”, una campagna nazionale che si occupa dell’abolizione della contenzione per malattia mentale. Ma l’esperienza su quel set, la frequentazione di quelle persone mi ha cambiata radicalmente. Ancora una volta: cosa può fare la differenza? Sforzarsi di capire, farsi raccontare, immedesimarsi. Mettersi nelle scarpe di. E bisogna parlare, perché più si parla, più si capisce. Più si capisce più si sta bene, più si vive con leggerezza. Se ti chiudi, invece, non capisci più e finisci col costruire una realtà finta, un autoinganno. E i social, ahimè, sono il regno dell’autoinganno».
Lei ha due figli. Come insegna loro questi valori?
«Bella domanda. Col tempo e anche un po’ con l’istinto ho capito che anche in questo caso il racconto è più importante dei dogmi. Bisogna imparare a raccontarsi ai propri figli, ad aprire l’album delle fotografie per narrare loro chi siamo. Le faccio un esempio. Io adoro Elton John e Freddie Mercury. Li ascolto sempre. Un giorno, mi accorgo che mio figlio Jacopo canticchia le loro canzoni. Io gli racconto la loro storia, una storia di uomini liberi. Finisce che Jacopo suona al pianoforte Bohemian Rhapsody e si appassiona alla musica. Lo porto al cinema a vedere il film su Mercury. E andiamo insieme a Lucca al concerto di Elton John. Il racconto diventa esempio, l’esempio diventa pratica, la pratica affina il talento e aiuta a vedere oltre i propri confini. E poi la sera, prima che mio marito Paolo torni dal lavoro, Jacopo e Anna sanno che si balla. Jacopo suona il pianoforte e io e lei ci scateniamo. E se non si balla, vuol dire che c’è qualcosa che non va. I valori sono racconto ed emozione. Con un pizzico di umorismo».
A proposito di umorismo. Non le va stretto il personaggio di donna irrimediabilmente drammatica?
«Da Verdone ho imparato una cosa: non puoi far piangere davvero se non riesci prima a far ridere. Il dono dell’umorismo è uno dei più importanti di tutti. Il cinema, la vita sarebbero una noia mortale senza il senso dell’umorismo, senza i tempi della commedia. Sono onorata di lavorare di nuovo con Francesca Archibugi proprio per la sua umanità, per la sua capacità di mescolare dolcezza, malinconia, tragedia, strazio, sorrisi. Lei acchiappa l’essenza delle persone che guarda e poi le impasta col cinema, con la letteratura, col teatro. E le fa diventare personaggi emblematici e memorabili. Il suo sguardo è un miracolo della natura».
Cosa racconta Vivere, il nuovo film di Archibugi?
«Della lotta per sopravvivere. Di ciò che divide e unisce le persone. Dell’amore e del disamore. È un film che ti aiuta a capire che siamo in mutamento. È molto bello perché dopo averlo visto non ti senti più solo. Narra dell’arrivo di una ragazza irlandese in una famiglia della periferia di Roma, del suo cambiamento. E Susi, il personaggio che interpreto, è un ritratto bellissimo di tutte le donne che trottano tutti i giorni per tenere a galla la loro famiglia, un’imbarcazione che fa acqua da tutte le parti eppure non affonda mai».

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Anche lei, nei mesi passati, ha tenuto a galla il suo matrimonio dopo una crisi. Come ci è riuscita?
«Non esistono famiglie perfette. Anzi, tutte le famiglie sono disfunzionali. E noi non facciamo differenza. Certo, io sono un’attrice e Paolo un regista: giornali e siti hanno ingigantito quella che è una crisi che capita a tutti. Sono molto gelosa della mia vita privata, però posso dirle una cosa: il dialogo ha cambiato tutto e reso tutto possibile. Darsi la possibilità di raccontarsi aiuta ad amarsi ogni giorno di più. Succeda quel che succeda. Raccontarsi è cercarsi, è un modo di abbracciare l’altro. Paolo è la mia casa, il mio uomo, mio fratello, il mio amante, il mio amico».
Che cosa l’ha fatta innamorare di nuovo di lui?
«Tutto. Semplicemente tutto».
Cosa l’ha fatta tornare con lui dopo la vostra separazione?
«Le risponderò col titolo del suo film che mi piace di più: Tutti i santi giorni. Io ogni giorno mi dico: voglio stare con lui. È con lui che voglio essere felice. È con lui che voglio crescere i miei figli. È con lui che riesco a guardare il mondo con più umanità».
Un’ultima domanda. Dopo tanti personaggi e tanti film, come vede Micaela tra dieci anni?
«Oddio: mio figlio avrà 20 anni, mia figlia più o meno 17. Non lo so, magari mi piacerebbe vivere in campagna ed essere un po’ più rilassata di come sono oggi. Forse vorrei fare tanti viaggi perché sono più di 25 anni che lavoro: ho praticamente passato gran parte della mia vita sul set. Mi manca di scoprire il mondo. E poi vorrei cucinare più crostate, perché ne faccio troppo poche. E fare le crostate è la cosa che mi viene meglio. Molto, molto meglio del cinema».

Fashion Editor: Gaia Fraschini / Creative Direction: Sarah Grittini Talent / Micaela Ramazzotti Hair: Andrew Guida @ Close Up Milano Make Up / Stefania Tranchino @ Glitter Make Up Manicure – Diana Carletti @ Glitter Make Up / Fashion Assistant: Martina Antinori / Producer @marinamoretti64

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