Quando ero una bambina, e poi una ragazza, non vedevo l’ora che iniziasse la scuola. Ci sono sempre andata volentieri, per tredici anni. Alle superiori qualche volta ho bigiato, come tutti, e sento ancora il languore del cappuccino con la sigaretta fumata nel bar con le luci al neon dove ci riparavamo dalla nebbia le rare volte che «facevamo fuoco» e finiva che passavamo la mattina a ripassare.
Non sono mai stata rimandata, non ho mai avuto insufficienze in pagella pur essendo tutt’altro che una secchiona. Non mi piaceva Chimica, più che altro non la capivo, e la prof Bertozzi di Latino ci dava del lei e puzzava di naftalina, letteralmente, ma vabbè.
Il fatto è che era un sacco di tempo fa, e che la scuola allora non era distante dalla vita come è adesso. Certo: andare a scuola in una piccola città emiliana negli anni Settanta era una condizione di privilegio, anche se allora non lo sapevo e credevo fosse normale avere una prof d’Italiano innamorata di Gadda e Calvino, un prof di Filosofia (poi diventato preside) che collaborava alle occupazioni, ai corsi di teatro, alle assemblee, una prof di Matematica così autorevole e simpatica che me la cavavo persino io che adesso sarei definita discalculica.
Non sto cantando l’ode ai bei tempi andati: le cose cambiano. Il problema è che la scuola invece non è cambiata, non si è evoluta, non è stata aiutata, anzi è ritornata indietro, agli anni Cinquanta, alle strutture decadenti, alle regole asfittiche, con l’aggravio di genitori rompiscatole che fanno casino nei rapporti tra studenti e professori. Con professori comprensibilmente depressi e frustrati da un sistema scolastico che non li capisce, non li gratifica e non li sostiene. E soprattutto: la vita dei ragazzi di oggi fuori dalla scuola è così lontana dalla vita dentro la scuola che non mi stupisce sentire sempre più storie di disagio scolastico, di studenti che non riescono più ad andarci, che non la amano e la trovano senza senso. Ora mi rendo conto che privilegio sia stato frequentare una scuola pubblica con un maestro elementare che (soffiandoci il fumo in faccia) portava in classe un piccolo televisore per farci seguire l’elezione del capo dello Stato o una prof d’Arte che ci mostrava i film di Antonioni per farci capire la prospettiva. Bulli non ne ricordo, tranne Marcello che mi tirava i capelli dal banco di dietro e dopo tanti anni mi ha spiegato che lo faceva perché non parlavo mai con lui. Forse era lui il bullizzato, da me.
La scuola va aggiornata, deve tener conto di cos’è oggi la realtà dei ragazzi: la realtà dei social, della loro musica, dei loro ritmi diversi, dei loro linguaggi. Loro sono il presente mentre la scuola vive nel passato. Un Paese che non concentra le sue forze e attenzioni sulla scuola è difficile che possa avere un bel futuro.