Non una goccia di sangue. Non un timido gridolino prima che il cuore cessi di battere. A differenza di molti prodotti dello stesso filone, Mindhunter la violenza non la mostra mai: la suggerisce piano piano, descrivendola minuziosamente attraverso la bocca di chi di quella violenza si è sporcato le mani. È questa, forse, la peculiarità più straordinaria della serie prodotta da David Fincher: liberarsi delle immagini per concentrarsi sull’incastro delle parole, sulla scelta dei termini più giusti per tracciare una linea dritta nella mente dei serial killer più spietati, quelli che non solo non provano rimorso per ciò che hanno fatto, ma continuano a uccidere per compiacere la propria libido. Se la prima stagione si concentrava sulla presentazione dei personaggi, la seconda, arrivata su Netflix a due anni di distanza dall’esordio, si sposta sull’azione.
https://www.youtube.com/watch?v=PHlJQCyqiaIPer la prima volta usciamo dalle lugubri stanzoni dei carceri federali e ci immergiamo nel pieno dell’impresa, con gli agenti Holden Ford (Jonathan Groff) e Bill Tech (Holt McCallany) che cercano di acciuffare il colpevole degli omicidi di Atlanta scannerizzando coloro che ritengono responsabili della scomparsa di 24 fra ragazzi e bambini di colore, tutti uccisi per soffocamento. La missione primordiale, quella di rintracciare le cause che hanno portato il killer a macchiarsi ripetutamente dello stesso delitto, si spinge fino a prevenire le azioni dei sospettati, degli uomini che corrispondono al profilo che gli agenti hanno tracciato grazie alla preziosa collaborazione di Wendy Carr (Anna Torv), forse uno dei personaggi più interessanti della serie. Insieme alla scoperta della verità e all’incontro di diversi criminali «di successo» come Charles Manson, interpretato da uno straordinario Damon Harriman, Mindhunter svela non solo le ombre dietro alle menti disturbate degli assassini, ma anche degli stessi protagonisti.
Holden che fa la voce grossa che ma che si trova ad affrontare le crisi di panico; Bill che cerca di comportarsi come se niente fosse ma che lotta silenziosamente per tenere in piedi il suo matrimonio, e Wendy che cerca di portare la sua ricerca a un livello superiore dimostrandosi poco incline al compromesso amoroso. I nove episodi della seconda stagione, a cui speriamo vivamente che ne seguano altrettanti, dimostrano tutta l’attenzione e la cura per i dettagli più minuziosi: dall’ocra della messa in scena fincheriana alla forza espressiva dei dialoghi; dalle musiche che crescono in prossimità di una scoperta eclatante alla claustrofobia suggerita dalle reazioni strozzate per mantenere il decoro. Per tutti gli amanti del genere crime, Mindhunter rappresenta non solo uno dei prodotti più riusciti, ma anche uno dei più raffinati, gioiellino su cui Netflix dovrebbe continuare a credere anche solo per rivedere lo sguardo di vaga disapprovazione di Wendy, la prova vivente di come si comporterebbe Miranda Priestley se studiasse psicologica criminale.