«Sono un gay cresciuto in Alabama, nel Sud degli Stati Uniti, un luogo dove la diversità è vista come un male, come una malattia. Negli anni Sessanta ho assistito al razzismo, ho visto bruciare le croci dal Ku Klux Klan. Ho vissuto sulla mia pelle che cosa significa essere trattati senza rispetto, senza dignità. Quella consapevolezza, quel dolore ti costringono a sognare un mondo dove rispetto e dignità siano alla portata di tutti… Oggi è la cosa più importante di tutte: esporsi, battersi in prima linea, come persona e come azienda, per il progresso, per i valori. Ancora una volta, la lezione di Apple, l’insegnamento di Steve Jobs sono sempre gli stessi: pensa a come cambiare il mondo, non a come vendere prodotti». Non era mai successo che Tim Cook, amministratore delegato di Apple, invitasse un giornalista italiano a far visita nella futuristica nuova sede di Cupertino, in California, e gli concedesse un’intervista di persona.
Ha fatto un’eccezione per Simone Marchetti, il direttore di Vanity Fair, che pubblica nel numero in edicola il colloquio. Tema centrale, appunto, la filosofia impressa all’azienda da Steve Jobs: «Non pensare prodotti che abbiano successo, ma creare strumenti che migliorino la vita delle persone», come l’Apple Watch che aiuta a monitorare l’attività cardiaca. Apple, dice, si sta muovendo con determinazione sul fronte dei social media, «strumenti che finiscono, per manipolare le elezioni o che usano notizie false per metterci gli uni contro gli altri»: un problema che spetta ai giganti di Silicon Valley risolvere: «Non solo per filantropia. Per il loro futuro. Il tempo delle promesse è finito».
Ma la vera emergenza mondiale, spiega Tim Cook a Vanity Fair, è il cambiamento climatico: «Abbiamo innovato parecchi processi produttivi. Per esempio, siamo in grado di misurare l’incidenza dei nostri prodotti sull’impronta ecologica che lasciamo. E piantiamo alberi per ogni foglio di carta che utilizziamo, o per ogni packaging. Tutta l’energia elettrica che oggi impieghiamo nei nostri centri e negli Apple Store proviene da fonti rinnovabili. E stiamo spingendo i nostri fornitori a fare lo stesso. L’obiettivo, poi, è arrivare a creare prodotti senza più prendere nulla dalla Terra, ma utilizzando tutti materiali riciclati. Già oggi l’alluminio di cui è composto il computer MacBook Air è completamente riciclato. Ovviamente sarà un viaggio lungo, non un cambiamento che avviene in una notte sola. Ma come grande azienda siamo chiamati a dare l’esempio».
Altro importante valore aziendale, l’investimento in educazione e formazione, che ha portato all’apertura nel 2016 a Napoli di una scuola di sviluppo di app, l’Apple Developer Academy: «Aprirla a Milano sarebbe stato troppo facile. Parlando col vostro governo, abbiamo capito che l’Italia è un Paese diviso in due, con un Nord più prospero e un Sud in difficoltà. Investire su Napoli era un modo per contribuire a ridurre il divario. Soprattutto in fatto di formazione. Per Apple, infatti, l’educazione è un valore imprescindibile poiché è l’unica arma che abbiamo per dare a tutti le stesse possibilità di crescere, di emanciparsi, di pensare, di esprimere se stessi. Nel caso di questa Academy, poi, insegniamo il coding, ovvero il linguaggio per programmare i software e per creare app. A mio parere, il coding è la vera lingua universale contemporanea, quella da insegnare ai bambini. Iniziando dall’asilo, come già succede. Con una raccomandazione: la programmazione da sola non serve a nulla, è sterile. Deve incontrare le scienze umane, la storia, la letteratura, la filosofia. È nell’intersezione, nei punti di incontro tra coding e umanità, tra tecnologia e pensiero, che sta tutto il nostro futuro».
Una parte dell’intervista di Tim Cook a Vanity Fair è dedicata al tema sensibile della privacy. «Che per noi è importantissima… Non raccogliamo dati, anzi, li proteggiamo. Perché pensiamo che la privacy sia un diritto umano fondamentale. E la mancanza di privacy la minaccia più devastante per la nostra società e per la democrazia stessa… Apple ha sempre combattuto per la privacy dei suoi utenti, anche contro i governi… La politica non sta facendo abbastanza… Servono leggi severe per proteggere la privacy dei cittadini e per impedire la raccolta selvaggia dei loro dati. In Europa, però, siete all’avanguardia: il lavoro di Giovanni Buttarelli, garante europeo, è eccezionale. Il mondo dovrebbe imparare da voi». Sta qui, dice, il pericolo, più che nella paventata supremazia dell’intelligenza artificiale: «Ho più paura degli uomini che pensano come computer che dei computer che si sforzano di pensare come gli uomini. La questione non riguarda la tecnologia o l’intelligenza artificiale ma le persone, i politici, le organizzazioni che utilizzano la tecnologia, spesso violando la privacy, senza alcuna moralità, pensando appunto come computer. Il problema non è la tecnologia, ma chi sceglie di usarla nel modo sbagliato».