È accaduto qualche anno fa. Will McCallum, attivista di Greenpeace Uk, ha chiamato a raccolta qualche centinaia di inglesi e ha chiesto loro chi fosse il responsabile dell’inquinamento dei mari, di quella gigantesca massa plastica che, entro il 2050, potrebbe superare per peso l’intero ammontare dei pesci. Il silenzio imbarazzato che, di solito, tradisce l’ammissione di una colpa è stato rotto dalle prime alzate di mano. «Sono io, i miei figli. Sono i miei vicini di casa e i miei amici. Siamo noi».
La maggior parte di quel gruppo male assortito si è rifiutata di scaricare il barile sui governi lassisti, sulle aziende votate al solo Dio denaro. Ed è stato allora, come preda di un’improvvisa epifania, che McCallum ha capito di dover convogliare ogni sua energia sull’educazione del singolo.
Il ragazzo, che al pubblico racconta di aver mutuato l’amore per la natura dal dottor Dolittle e dai documentari di sir David Attenborough, ha così preso carta e penna e, chino sul proprio tavolo, ha trasformato in un libro il proprio sapere. Vivere senza plastica (HarperCollins 2019, pp. 240, € 15), disponibile nelle librerie italiane, non è un tomo voluminoso, uno di quei saggi appesantiti dal parlare tecnico. È una guida, una sorta di compendio il cui assunto iniziale sta nella constatazione, realistica e per nulla fanatica, di quel che siamo: consumisti dediti allo shopping più pazzo.
«Dovete essere indulgenti con voi stessi», racconta McCallum, «Non si può pretendere di eliminare la plastica dalle proprie vite un giorno con l’altro». Si può, tuttavia, adottare alcuni accorgimenti per ridurre al minimo il proprio impatto ambientale. McCallum, che nella gallery in alto ci ha svelato le cinque, più semplici mosse per liberarsi dalla dittatura di polistirolo e lattine, parla di borracce e borse di tela. Di lavatrici fatte con raziocinio, ché tra i principali responsabili della plastica negli oceani si contano gli abiti sintetici. Parla di donne e creme colme di microsfere in plastica, di bambini educati all’uso di materiali alternativi, di genitori consci di come il mancato riciclo dei pannolini impatti al punto sull’ambiente circostante da aver modificato, in Gran Bretagna, l’aspetto del letto del Tamigi. Soprattutto, parla di cose che i più ignorano.
«Si tende a pensare che i colpevoli dell’inquinamento siano, per lo più, i paesi asiatici. Invece, ad aver bandito per primo l’uso dei sacchetti di plastica, è stato il Bangladesh». La ragione, racconta McCallum, non sta in una particolare sensibilità ambientale. «Non avevano a cuore le tartarughe, in Bangladesh. Solo, avevano un problema fognario: la plastica ostruiva le tubature e, ad ogni pioggia, i tombini esondavano. Spesso», dice, «È un problema sociale a produrre un cambiamento in favore dell’ambiente». E, altrettanto spesso, è l’Occidente ad utilizzare l’Oriente come discarica. «Attraverso GoogleMaps, abbiamo scoperto che una discarica nel mezzo della giungla malese cresceva a ritmo sostenuto, troppo. Abbiamo cominciato a pensare che non stesse smaltendo solo rifiuti locali, e così era. Giunti in Malesia, abbiamo trovato buste con indirizzi inglesi, pacchetti di cracker europei».
La colpa, dunque, è nostra. Di tutti. «Dobbiamo agire ora, e dobbiamo agire in fretta». Perché delle 330 milioni di tonnellate di plastica prodotte ogni anno nel mondo solo il 10% può essere riciclato. Il resto si deposita sul fondo dei nostri mari, soffoca i pesci e ostruisce i fiumi. Viene ingurgitato dalle creature più grandi, strozza le tartarughe e insozza le spiagge. «Oggi, ogni consumatore ha un potere immenso. Fate sentire la vostra voce». È la domanda, sempre, ad influenzare l’offerta.