«Quello che mangiamo è una delle più importanti decisioni che prendiamo ogni giorno». Inizia con queste parole la mostra che ha un titolo tanto semplice quanto potente – Food: Bigger than the plate – prodotta del Victoria & Albert Musem di Londra che inaugura il 18 maggio e che potremo vedere fino al 20 ottobre 2019. Ed è così: la decisione che prendiamo più spesso, almeno tre volte al giorno – e che spesso viene presa in modo automatico, guidata da mode, diete, abitudini, consumi, marketing – è in realtà una scelta cruciale, per noi e per il pianeta.
Eppure, nonostante l’importanza dell’argomento, la mostra al V&A non vuole né angosciare né responsabilizzare, «Non vuole essere né didattica e nemmeno normativa», commentano le curatrici – Catherine Flood e May Rosenthal Sloan, presentandola a Londra il 15 maggio sotto l’egida del Direttore del grande museo londinese, Tristram Hunt.
«Questa mostra vuole aprire al dialogo», dicono. E ci riesce: Food è un «racconto circolare» che ha al centro l’uomo, una storia sensoriale che comprende quattro capitoli: Composting, Farming, Trading, Eating. I quattro passi fondamentali di cui siamo attori fondamentale, lo spreco e il riciclo, la produzione del cibo attraverso l’agricoltura e l’allevamento, il food design, e il mangiare, connesso con la cucina, il gusto, le abitudini di consumo. Un viaggio che si compie attraverso gli interventi creativi di scienziati, designer, chef e artisti: 70 progetti raccolti in tutto il mondo che indagano l’oggi e soprattutto disegnano il futuro.
«Adesso è il momento di pensare in modo critico a ciò che vogliamo preservare, ripensare o creare di nuovo», commenta il Direttore Tristan Hunt, e Food assolve al compito raccogliendo un’enorme quantità di pensieri, progetti, indagini, visioni.
LA MOSTRA
In Compost il mondo che si scorge è quello in cui il nostro impatto si può «sanare», in cui ciò che sprechiamo si trasforma in altro, le bucce d’arancio in tessuti per la moda, i fondi di caffè in tazzine, i nostri scarti di ogni giorno si trasformano in fertilizzanti sul balcone di casa.
Nella sezione Farming si vuole colmare la distanza «tra i campi e la nostra forchetta»: solo una piccola parte della popolazione è direttamente coinvolta nella produzione agricola (in Inghilterra solo 1,4 per cento), mentre la grande parte dei consumatori non ha la possibilità di sapere come e dove viene prodotto il cibo che consumiamo. Come e a che prezzo ci sostentiamo?
Nel progetto This Little Piggy, l’artista birmana naturalizzata americana Elaine Tin Nyo ha seguito la vita di un maialino dell’allevamento che produce il pregiato prosciutto di Bayonne dalla nascita lungo tutta la sua vita (11 mesi), fino a quando è stato ucciso, macellato e trasformato per creare due prosciutti che verranno serviti in due ristoranti di lusso francesi. Non è crudele, le domandiamo?
«Sì è crudele uccidere un animale ma il punto è che bisogna essere onesti con se stessi, e questo è quello che succede. Se mangiamo carne, un animale muore, non possiamo fare finta di niente».
Aggiunge: «Tra l’altro questa è una fabbrica che ha un sistema di allevamento responsabile sia nei confronti degli animali che verso le persone che ci lavorano, nei casi di allevamento intensivo il contesto tutto è molto più feroce e la sofferenza di tutti è più alta. Anche se questo non è un progetto che suggerisce di non mangiare carne, vuole concentrarsi sulla consapevolezza delle nostre scelte». Poco dopo, guardando un video che mostra immagini di allevamenti intensivi di specie diverse, diventa chiaro come ogni cosa che implica grandi numeri diventa disumana.
Si prosegue nelle sezioni, attraverso programmi di coltivazione urbana, progetti in cui il design del cibo ne riduce l’impatto e cambia il nostro modo di mangiarlo, fino al capitolo Eating, dove tutti i fili si legano. La parola chiave della mostra è ricollegarsi con il cibo. Sapere che quello che scegliamo cambia il mondo, non solo singolarmente ma come collettività.
«Dobbiamo diventare cittadini, non solo individui» commenta Fabio Parasecoli, professore di Food Studies alla New York University e consulente per la mostra, «Ci sono scelte sistemiche che non dipendono solo dai consumatori, ma i consumatori possono far sorgere progetti collettivi che influenzino le scelte politiche che disegnano il nostro futuro». La parola chiave della mostra è anche questa, futuro, che qui sembra non possibile ma anche pieno di speranza.