«L’uomo è ciò che mangia» disse il filosofo Ludwig Feuerbach, che scomodiamo per per ragionare su una vicenda molto meno filosofica, che da un lato conferma la forza del discusso e discutibile Tripadvisor, dall’altro parla del rapporto difficile in questi tempi tra l’individuo e la società (oltre che tra chef e clienti).
I due attori della vicenda sono uno sconosciuto ma attivo utente di Tripadvisor, Mister Zwelithini, che vuole spolverare di Parmigiano il suo piatto di ravioli ripieni di granchio con crema al salmone e Massimiliano Donati, titolare di Maximo Italian Bistrot, vivace locale al 58 di Kennington Park Road, Londra. Zwelithini pensa che ai suoi ravioli manchino di qualcosa e nella sua mente si materializza il “Parmigiano”, lo chiede e il cameriere lo guarda con disappunto, e non pago si rifiuta di portarlo. L’offeso Zwelithini insiste, poi non volendo far scenate finisce la cena e se ne va.
Ma una volta a casa, prima telefona al cameriere e gli spiega le sua ragioni, e poi – vendetta tremenda vendetta – Zwelithini scrive una recensione in rete sul trattamento ricevuto. Donati, il gestore, interviene subito in rete, affermando che considera «oscena» la richiesta di Zwelithini e già che ci siamo, stende un decalogo di «verità» sulla cucina italiana. E puntualizza cosa non bisogna mai chiedere a un vero ristoratore italiano:
l’ananas sulla pizza (dall’accostamento, però, il maestro pizzaiolo italiano Franco Pepe ha creato AnaNascosta, la pizza dell’anno…);
la panna nella carbonara;
le fettuccine Alfredo (oddio, sono buone se ben preparate!);
il pollo all’arrabbiata e il formaggio sui piatti di pesce.
Giusto, sbagliato? Va reso onore in prima battuta a Donati visto che il suo locale non fa folclore culinario: salumi e formaggi Dop, nomi dei piatti rigorosamente nella nostra lingua, ricette della tradizione. Integralista non solo a parole quindi e amato da chi si siede lì: mentre scriviamo, il Maximo Italian Bistrot su Tripadvisor vanta quattro stelle e mezza su cinque, è nella posizione 1.177 su 18.806 locali recensiti a Londra e ha solo 7 valutazioni pessime rispetto alle 119 eccellenti e alle 27 molto buone. Donati è serio, bravo, patriota.
Però, però… Donati non lavora ad Alba o Modica. Londra è il cuore del mondo, di tante cucine e tante contaminazioni. Se c’è Alain Ducasse che serve un canonico foie gras di anatra c’è pure Gordon Ramsay che suggerisce l’utilizzo dei piselli e del tartufo nella carbonara. Per non parlare di Giorgio Locatelli – neo-giudice di Masterchef e adorato dagli inglesi – che propone buona cucina italiana, ma degli anni ’80 e ’90, fino ad arrivare a Jamie Oliver la cui cucina italiana ha un mood del tutto inglese. Cosa deve pensare un londinese, se non è raffinato gourmet? Noi, al posto di Donati avremmo detto al cameriere di portare il Parmesan suggerendo il suo punto di vista sul gusto e sul piatto. Poi amen, che si godesse i suoi ravioli magari bevendo insieme un bel cappuccino. E ognuno «sarà quello che mangia».
Ma soprattutto: qual è il confine di cosa è «cucina italiana» e cosa non lo è? Da quando la cucina – e specialmente una cucina varia e ricchissima di storia e commistioni come quella italiana – è un dogma immutabile e non una materia viva? Giustissimo cercare di insegnare agli stranieri l’ABC della nostra cucina, difendere i nostri prodotti (su questo ha senso dare grande battaglia), creare eventi collettivi che celebrino la tradizione della nostra cucina e insieme il suo futuro. Ma poi arriva un Bastianich con la sua nota visione italo-americana, sbanca e diventa riferimento.
Da noi si lotta sul filo dell’equilibrio da tempi immemori. In Italia si detestano gli stellati («si mangia poco e male, spendendo un sacco») ma si vivono le trattorie come luogo proustiano, perdonando tutto in base al costo inferiore e alle porzioni da camionista. Nessuna sorpresa: gli italiani mangiano meglio di ogni altro popolo e sanno distinguere il prodotto buono da quello cattivo ma in pochissimi hanno la cultura dell’«andare al ristorante». Si aspettano il capolavoro non previsto, ricordano al cuoco i piatti di mamma e zia (spesso orribili) e si lamentano a 360° peggio di un critico professionista. Del resto, Renzo Tramaglino, nei Promessi Sposi è già duro recensore della categoria. «Maledetti gli osti! più ne conosco, peggio li trovo» si legge nel capitolo 18. Non tutti sono così, ovviamente. Ma va anche detto che la serenità dei clienti è diventata merce rara, incredibile se si pensa che in Italia non si è mai mangiato così bene, a livello medio.
Ma alla fine, chi ha ragione? Il cliente che vuole mangiare un piatto come preferisce (anche con il Parmigiano) o lo chef che difende la sua cucina e il suo piatto? Nel nuovo mondo che celebra l’importanza dell’individuo, ci sentiamo dire nessuno, perché come il cliente potrebbe piegarsi al sapere dello chef, così lo chef potrebbe evitare di considerare il cliente come lo spettatore pagante del proprio sapere e della propria voglia di esibirsi. Sul tema ci permettiamo di chiamare in causa il più amato degli italiani, Antonino Cannavacciuolo. Lo chef napoletano sostiene da sempre che «il no secco non deve esistere in una sala» e non sopporta i ristoratori «che dicono solo “faccio io”» tanto è vero che a Villa Crespi esiste una carta molto ampia a fianco dei due menu degustazione. Ma Don Antonino sostiene anche che «i clienti prima di criticare una ricetta devono avere il concetto di qualità dell’ingrediente sennò è inutile». Semplificando: rispetto.