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Il boss e la vecchietta nel palazzo: così vive un pentito di Camorra

Domenico Bidognetti era uno dei capi dei Casalesi. Ha ammazzato più di 40 persone, poi (complice la richiesta di sua figlia di comprargli una tigre vera) ha scelto di pentirsi. Oggi, in un'altra parte d'Italia, ci racconta la sua vita (tra «la paura di deludere i vecchietti del mio palazzo») e i problemi dei 1.600 collaboratori di giustizia italiani

Da qualche anno a questa parte, Domenico Bidognetti esce poco la sera. Parla ancora meno e non ha amici, se escludiamo i vecchietti del palazzo in cui vive, con cui a volte condivide un piatto di pasta al sugo. «Sono gli unici rimasti che ho paura di deludere: preferirei morire, piuttosto che lasciargli sapere chi ero»: uno che ha ammazzato tanti uomini da non ricordarne il numero esatto. «Di solito si ricorda solo il primo. Era uno che 30 anni fa stava bevendo qualcosa al bancone del bar di un lido balneare. Non ci vide neanche arrivare». A quello, seguirono «più o meno una quarantina di altre stese», la scalata ai vertici del Clan dei Casalesi, un arresto, il pentimento e una vita piuttosto silenziosa.

LA VITA DI UN PENTITO
Perché la vita di un pentito è un’unica, enorme e intricata bugia da modellare per anni, parola per parola. «È la parte più difficile, non tradire il personaggio che ti sei cucito addosso. Non girarti quando senti il tuo nome, non contraddirti, ricordarti da quale paese hai detto di venire, non far incontrare due persone che ti conoscono e a cui hai dato differenti dettagli di te». Oggi, dopo l’omicidio a Pesaro del fratello del collaboratore di giustizia Marcello Bruzzese, Domenico dice che ha «paura solo per la vita dei miei familiari. Io stesso ho ammazzato parenti di pentiti. E so che i Casalesi non dimenticano. Per noi uccidere era come prendere questa e buttarla per strada». Stringe tra le mani grosse e pelose quel che rimane di una bottiglietta d’acqua e mima il gesto di buttarla via. Gli occhi sono gli stessi di sempre, i capelli più bianchi, e l’espressione meno severa di quella  delle foto segnaletiche dell’epoca, quando era «Bruttaccione». «Perché quando giocavo a calcio e subivo falli, facevo brutto».

IL CLAN DEI CASALESI

Avevano tutti un nome diverso da quello di battesimo, i capi dei Casalesi, quel clan di «mafiosi imprenditori» raccontati da Roberto Saviano in Gomorra, e arrivati a diventare la quarta organizzazione criminale più pericolosa del mondo. Francesco Schiavone era Sandokan, perché era il capo. Mario Iovine O’ Viecchio, perché era il più anziano; Vincenzo De Falco il Fuggiasco, perché latitante. E Francesco Bidognetti Ciocciotto e Mezzanotte, perché amava vivere la notte. «È stato Cicciotto, mio cugino, la ragione per cui sono diventato un camorrista. Noi casalesi non siamo nati mafiosi. I nostri genitori erano quasi tutti onesti contadini. Io fino a poco più di vent’anni ero un muratore. Però la sera mi ritrovavo con i ragazzi del paese, che stavano vicini a mio cugino, già allora un leader naturale e per me un Dio. Un giorno mi chiesero se potevo conservargli una pistola. Qualche giorno fu un fucile, poi una Fiat Croma turbo grigia, da tenere parcheggiata dietro casa. Quando i miei la videro capirono tutto: era la macchina più usata per gli agguati. Mio padre mi pregò di continuare a lavorare onestamente, di non fargli mettere vergogna. Fu tutto inutile».

L’arresto, dopo 14 anni di latitanza, di Antonio Iovine, uno dei capi del Clan dei Casalesi.

LA SCALATA AL CLAN
Negli anni 90 la caratura criminale di Domenico, che la sua storia l’ha raccontata ne Il Sangue non si lava (scritto con Fabrizio Capecelatro per ABeditore), cresce a dismisura. Durante il periodo di latitanza di Francesco, è lui a rappresentare la famiglia e stabilire le strategie con le altre tre famiglie dei Casalesi (Schiavone, De Falco, Iovine). Gestisce il business delle aziende di bufale, dell’edilizia e dell’immondizia. «Ero una macchina da soldi», racconta senza autocompiacimento, nel  racconto di una vita precedente che pare priva di emozioni: «Non amavo l’adrenalina né la vita selvaggia. Non sentivo il bisogno di far parte di un branco e neanche di mostrare ricchezza. Era la mia vita e basta». La cosa che gli fa più schifo è l’aver ucciso «gli stessi ragazzi con cui avevo mangiato e dormito insieme»: «Un giorno tornai da mia madre e mi chiese sconvolta: “Hai sentito? Hanno ammazzato Nicola”. Finsi stupore e dispiacere. L’avevo ucciso io, era mio amico. Una volta mio cugino Francesco vide che ero dispiaciuto per aver ammazzato due ex compagni nostri, ragazzi che conoscevamo bene: “Che pensi ai tuoi compagni? Morto un papa se ne fa un altro”, mi rispose. Mi dissi che valevamo meno dei maiali, altro che galantuomini». Quando gli chiedo della serie Gomorra, dice che più di tutto, rispecchia i «tradimenti tra di noi. Perché in realtà noi Casalesi siamo ominicchi, e ci tradiamo continuamente l’un l’altro».

«QUANDO IL MIO AMICO MI CHIESE DI SEPPELLIRE SUO PADRE»
Eppure, seguendo quel canone trito e ritrito secondo cui la mafia di prima era sempre meglio di quella attuale, ripete che la passata generazione di Casalesi era diversa. «Non esiste giustificazione per quello che ho fatto. Ma almeno io non ho mai arruolato bambini. Avevo 100 persone sotto di me e il più piccolo aveva 17 anni», dice, riferendosi al film de La paranza dei bambini, orso d’oro a Berlino. Le sue parole sono uno spaccato fondamentale per capire il pensiero dei clan attuali: «Il potere ce lo dava anche il popolo, quando ci chiedeva di procurargli un lavoro, trovargli un letto all’ospedale o addirittura di mettere pace tra figlie e fidanzati».  C’è un episodio, che a raccontarlo fa venire le lacrime a Domenico. E che fa capire, più di ogni analisi, il tentativo di controllo da parte dei camorristi di ogni aspetto della vita, persino della morte. «Una notte, alle 2, mi suonarono a casa. Guardai il videocitofono: era un mio amico d’infanzia. Aveva iniziato facendo il muratore come me, ma lui era rimasto un uomo onesto e in tutti questi anni mi aveva giustamente evitato. Adesso era in lacrime, in piena notte, davanti a me: suo padre era morto e al cimitero gli avevano detto non c’era posto. Lo avrebbero seppellito a terra. Mi supplicò di trovargli un obolo. Il giorno dopo ce l’aveva. Era un amico onesto».

La cattura di Michele Zagaria, capo del Clan dei Casalesi, avvenuta a Casapesenna nel 2011.


MIA FIGLIA E LA TIGRE

Piange, Domenico, perché forse in quell’amico che bussava alle 2 di notte ha visto quello che sarebbe potuto essere lui, se non avesse cambiato strada. Un uomo onesto, che seppelliva il padre. Lui, che il padre Umberto se l’è visto massacrare di colpi a causa del suo pentimento. E lui, che si pentì proprio quando si rese conto di aver fallito come padre. «Volevo che i miei due figli, un bimbo e una bimba, facessero una vita onesta. Sono stato attento a non viziarli, li ho mandati a scuola dalle suore e ho cercato di non fargli frequentare gli altri figli dei boss. Un giorno, quando ero in carcere, mia figlia mi viene a trovare: ”Papà mi compri una tigre?”. “Certo che te la compro”, risposi. Pensavo al peluche. Invece voleva la tigre vera. Aveva giocato dal figlio di Sebastiano Panaro, che a casa aveva veramente un cucciolo di tigre. Fu il primo segnale. Coi mesi, vedevo che quando venivano a trovarmi in carcere usavano un linguaggio che non mi piaceva, il mio. Erano sempre più fieri di essere figli di boss».

IL PENTIMENTO
Gli portavano i «saluti» di altri affiliati, gli descrivevano i regali ricevuti o le cene offerte solo perché erano figli suoi. La femmina gli raccontò che voleva farsi una camicia con le sue iniziali sul polsino, cosicché tutti potessero vederle e omaggiarla come si deve. «Capii che sarebbero finiti in carcere o al camposanto. Lui, affiliato, lei, sposa di qualche affiliato». E così, nel settembre 2007 Domenico Bidognetti assolda un nuovo avvocato (non quello che aveva finora usato assieme agli altri Casalesi, non si fidava) e decide di raccontare tutta la sua vita ai magistrati. Lo fa prima per convenienza – avere dei figli onesti – e poi per convinzione. Racconta gli omicidi, il giro di denaro, gli investimenti, il sistema. Diventa un «infame». I Casalesi gli ammazzano il padre Umberto, mentre va a lavorare in campagna. Suo cugino Francesco («Che per me era Gesù») lo vuole morto. Sua madre, visto che per causa sua ha perso prima un altro figlio (ucciso per una faida) e poi il marito, pure. «Mi disconobbe come figlio. A 63 anni morì di dolore. Nelle stesse ore in cui si stava spegnendo, le scrissi una lettera che non lesse mai: le chiedevo perdono per non essere stato il figlio che avrebbe voluto». 
Perdono è una parola importante per un pentito: «L’ho concesso persino agli assassini di mio padre. Li capisco. È lo stesso perdono che cerco per me, che ho chiesto a mia madre e ai miei figli. Non sono una persona per bene, neanche adesso. Ma è solo perdonando e chiedendo perdono che mi sento un po’ più libero».

I PROBLEMI DEI PENTITI
Poter uscire di casa non basta. «I primi giorni fuori di prigione mi sentivo in colpa. Sentivo che quella libertà non mi apparteneva, non l’avevo meritata. Uscivo di casa, passeggiavo per massimo mezz’ora e poi tornavo di corsa». Faticava, Domenico, a non sentirsi un infame. Oggi, in un’altra parte d’Italia, vive quelle piccole difficoltà quotidiane dei 1.300 pentiti italiani (600 ex appartenenti alla Camorra, 300 a Costa Nostra, 200 alla ‘Ndrangheta, 100 alla Sacra Corona Unita, un centinaio a mafie straniere), e che sono state oggetto di recenti inchieste giornalistiche. «I documenti di copertura sono carta straccia. Se vado dal dottore, non ho un tesserino sanitario, ma un foglio di carta che ha bisogno di essere a sua volta verificato da altre persone. Ho i 1.100 euro al mese che mi dà lo Stato. Non posso aprire una partita Iva né riprendere la patente, persa per mancanza di requisiti morali. Come faccio a trovare lavoro se non ho i documenti in regola e non sono automunito a 52 anni?».

https://www.youtube.com/watch?v=iohtsbO5h0I

I DOCUMENTI E I LAVORETTI COME MURATORE

Domenico ha qualche remora a parlare dei problemi dei pentiti, visto l’affetto che prova verso gli efficienti (e incolpevoli) carabinieri che lo proteggono: «Sono la mia famiglia. A volte questi ragazzi anticipano coi loro soldi la benzina». E subito gli torna in mente «l’efficienza» del suo clan: «C’era un ragazzo addetto soltanto a pulire e smerigliare le armi che servivano per gli omicidi; un altro che prendeva 2 milioni di lire al mese solo per tenere parcheggiate le auto che servivano per gli agguati, accenderle ogni due giorni per evitare che si ingolfassero; controllare l’olio, il pieno di carburante e sistemare una bottiglia piena di benzina sotto il cruscotto, che poteva tornare utile». Lui è stato fortunato: «Causa scarsezza di appartamenti disponibili, altri pentiti si sono ritrovati in paesi in cui vivevano altri compaesani diventati collaboratori. Io sono in un palazzo con ultraottantenni che mi vogliono tutti bene. La vedi questa camicia che ho addosso? Me l’ha regalato una vicina. A un’altra ho fatto dire la messa in onore del marito. A un altra ho fatto la tomba al cimitero. Finora mi sono fatto tre funerali». Per i vicini fa anche «qualche lavoretto»: «So fare tutto: piastrelle, intonaco, tramezzi».

«VORREI UN ABBRACCIO DI MIA MADRE»
Per il resto, evita di parlare troppo con le persone: «Se mi trovano a parlare con uno che poi risulta essere un pregiudicato, mi danno un’ammonizione. Alla terza, sono fuori». Una vita tranquilla. «Sono venuti a chiedermi se voglio fuoriuscire dal programma. Per adesso no, ho ancora troppi processi. Tra due anni, lo spero. Voglio iniziare una vita mia». A oggi, Domenico Bidognetti ha perso soldi, genitori, moglie, figli e cugino. Dice di non essere un uomo per bene, «neanche adesso». Ma si sente «riportato indietro a 21 anni», a quando faceva il muratore, «sempre sporco, ma più leggero». Sa che i Casalesi non scordano mai, ma paura di morire non ne ha: «Solo paura di deludere i miei vicini». Vorrebbe più di tutto «un abbraccio di mia madre. E poter tornare indietro per essere vicino a mio padre e ai miei figli». Gli hanno fatto sapere che entrambi lavorano, in un’altra parte d’Italia: «È già qualcosa».

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