Toto, ho la sensazione che non siamo più a Cancun
Che le WTA Finals 2024 non siano un torneo come tutti gli altri (o anche come la disgraziata edizione dello scorso anno a Cancun) lo si capisce ancora prima di arrivare all’arena di gioco, quando l’auto con la quale ci si reca al torneo (i trasporti pubblici non sono proprio efficientissimi dato che la metropolitana di Riyadh non è ancora ultimata) attraversa lo sterminato campus della King Saud University (per i locali semplicemente KSU), un mastodonte da oltre 60.000 studenti e 900 ettari, la maggior parte dei quali occupati da enormi parcheggi che fanno impallidire quelli di megastadi e aeroporti in qualunque altra parte del mondo.
La King Saud Indoor Arena è un impianto tutto sommato piuttosto compatto, vista le dimensioni di tutto quello che la circonda, compreso il King Saud University Stadium, sede delle partite casalinghe della squadra di calcio di Al Nassr, quella nella quale gioca Cristiano Ronaldo. Per queste WTA Finals l’impianto è stato ridotto a una capienza ufficiale di 4.200 spettatori (anche se sembra più piccola) per fare in modo che le tribune siano più vicine al campo e creare un’atmosfera più raccolta intorno al terreno di gioco.
La cartellonistica molto curata crea un ambiente che unisce l’interno all’estero, dal campo di gioco alla Fan Zone fuori dall’ingresso con giochi per bambini, stand e punti di ristoro. Le maschere di servizio, i cui sguardi vagamente smarriti tradiscono il fatto che di tennis non ne hanno visto molto in vita loro, vestono quasi tutte una pettorina con su scritto “Ask me”, anche se poi in realtà è lecito chiedersi che risposte possano dare, mentre reggono in mano dei cartelli colorati a forma di racchetta che tentano di guidare il comportamento del pubblico: “Il match sta per iniziare, prendete posto”, “Partita in corso, per favore non muoversi”, “Silenziare il proprio telefono cellulare, grazie”. Il movimento all’interno è gestito secondo le norme vecchio stile, ovvero si può lasciare gli spalti solamente durante i cambi di campo, non alla fine di ogni game come sperimentato a partire dall’estate scorsa. Scelta probabilmente saggia per un pubblico (e personale di servizio) di neofiti che ha bisogno di regole chiare e semplici.
Ovviamente era da mettere in preventivo che organizzare un torneo di tennis femminile in Arabia Saudita, dove solo pochi anni fa alle donne non era nemmeno permesso giocare a tennis (e fare molte altre cose, come guidare o uscire con un uomo che non fosse il padre o il fratello), non avrebbe portato a folle oceaniche. Tuttavia c’erano comunque quindici milioni di motivi per scegliere questa location, a partire naturalmente dal montepremi, e forse altri in più per creare una vetrina allo sport femminile nel più ostile degli ambienti possibili. “È il torneo con le migliori giocatrici del mondo – ha commentato Jasmine Paolini sulla scelta di Riyadh come sede per le WTA Finals – siamo tutte lavoratrici, siamo indipendenti, è una buona cosa promuovere questa competizione in un Paese come questo”.
Certo, è un punto di vista. Sicuramente le cose sono migliorate parecchio per le donne in Arabia Saudita nella storia recente: la presidentessa della Saudi Tennis Federation (STF) Arij Mutabagani ha dichiarato che ci sono 60.000 ragazze che hanno iniziato la pratica del tennis, e alcune di loro hanno avuto l’opportunità di incontrare le campionesse impegnate nelle Finals per trarre ispirazione. Anche Judy Murray, madre ed ex-allenatrice di Andy Murray, che subito dopo l’annuncio della decisione di spostare il torneo di fine anno in Arabia Saudita aveva aspramente criticato la scelta, nel suo ruolo di Community Ambassador per la WTA ha partecipato a progetti di sviluppo del tennis nel Paese ed ha cambiato radicalmente la sua posizione: “Abbiamo una grande opportunità. Si tratta di un foglio completamente bianco, bisogna partire da zero. Ora stiamo creando le basi, e una volta completata questa fase succederanno tante cose interessanti”.
All’interno dell’impianto che ospita le WTA Finals non ci sono zone segregate per uomini e donne, fatta eccezione per le toilette e per le sale di preghiera. E anche più in generale nei luoghi pubblici di Riyadh non si percepisce una divisione netta tra uomini e donne, anche se la percentuale di niqab (l’abito nero che copre completamente la figura femminile ad eccezione degli occhi) è sicuramente più elevata rispetto ad altri Paesi del Golfo meno tradizionalisti. L’immenso campus della King Saud University, tuttavia, ha una zona dedicata esclusivamente alle studentesse.
E se per la condizione femminile la situazione è certamente migliorata nel recente passato, non va altrettanto bene per gli appartenenti alle comunità LGTBQ+, il cui stile di vita è ancora illegale e punibile con la prigione in Arabia Saudita, anche se a questo torneo la riserva Daria Kasatkina è tranquillamente venuta con la propria compagna Natalia Zabiiako e durante le sessioni di allenamento le due hanno tranquillamente mostrato gesti affettuosi l’una nei confronti dell’altra, senza alcun tipo di conseguenza.