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il giocatore invisibile

Risale a molti anni fa la mia prima lettura del “Giocatore invisibile”, famoso romanzo di Giuseppe Pontiggia apparso nel 1978 che ebbe, all’epoca, un notevole successo letterario. L’ho riletto di recente perché, dimenticata quasi del tutto la trama, era rimasto vivo in me il ricordo di un racconto appassionante, caratterizzato dal serrato ritmo narrativo e dalla prosa elegante e scorrevole.

Il romanzo si snoda come una sorta di serrata indagine condotta dal protagonista alla ricerca di un misterioso avversario. Pontiggia non rivela il nome del suo personaggio principale (né il luogo ove si svolge la vicenda) egli lo chiama semplicemente: “il professore”. Sappiamo che è un famoso filologo, titolare di cattedra all’Università, un vero e proprio “barone” con una giovane amante, aspirante poetessa.

Una lettera inviata ad una rivista letteraria da un lettore sconosciuto, inserita in una rubrica denominata “Fendenti”, dà il via a una serie di inattesi sviluppi. Il “nemico invisibile” sottolinea alcuni errori commessi dal professore in un articolo, apparso poco tempo prima sulla medesima rivista nella rubrica “La parola agli antichi”. Tutto ruota intorno al significato e all’etimologia del vocabolo “ipocrisia”. Ma non è tanto il contenuto della nota critica a suscitare lo sdegno del professore, ma il suo tono sarcastico e sprezzante.

L’evento, apparentemente destinato a dissolversi con il passare del tempo senza suscitare grande clamore, alla stregua di una comune diatriba tra filologi, mette invece a nudo la vulnerabilità del professore, il quale, ossessionato dal suo nemico, interroga a più riprese, nel tentativo di scoprirne l’identità, conoscenti e colleghi. La vicenda, è appena il caso di accennarlo, lascerà il segno anche nella sua vita privata.

Man mano che il racconto procede, il protagonista entra in un vortice di dubbi e incertezze sempre più angoscioso. Egli si rende conto che il giudizio degli altri pesa come un macigno e finirà per comportarsi in modo sciocco e impulsivo. Il suo ego, ingigantito dopo anni di faticose arrampicate professionali, vacilla e il professore scopre all’improvviso di essere un uomo fragile, in balia di incontrollabili eventi.

Che rapporto c’è tra il gioco degli scacchi e questo romanzo? Ecco alcuni spunti. Il protagonista gioca a scacchi a livello amatoriale, frequenta un circolo intitolato a Paul Morphy, leggendario campione americano dell’ottocento, fondato trent’anni prima da un conte. All’interno di questo luogo decrepito, in un’atmosfera greve, austera e fumosa egli incontra un collega con il quale discute dell’articolo denigratorio e alla fine gioca con lui una partita della quale non conosceremo né l’andamento né il risultato.

In un successivo capitolo, incontriamo il protagonista alla ricerca, in un negozio specializzato, di una particolare scacchiera che aveva notato qualche giorno prima nella vetrina e che sembra sia stata sostituita da un’altra molto simile. Non contento di quelle, quasi identiche, che gli vengono mostrate, egli sostiene un’interminabile discussione prima con il commesso e poi la proprietaria, entrambi convinti che i modelli proposti non differiscano di molto dalla scacchiera da lui ammirata in precedenza. Alla fine, dal deposito ne viene fuori una che, nonostante un impercettibile difetto, sembra proprio “lei”. Si tratta di un modello molto grande in legno massiccio di palissandro che viene finalmente acquistato, impacchettato e portato a casa dal protagonista con immensa soddisfazione.

Non ricordo altri riferimenti scacchistici all’interno del racconto, ma credo di poter affermare che l’intero romanzo (il titolo è significativo) è strutturato come una sorta di gioco crudele, una partita a scacchi alla cieca tra due menti lucide e acuminate. Ad una mossa dell’uno risponde la difesa dell’altro, ad un attacco segue una contromossa, e così via fino alla fine.

Scrive Stefano Bartezzaghi in un articolo apparso a giugno 2006 su Repubblica, a tre anni dalla scomparsa dello scrittore: “L’agonismo degli scacchi affascina Pontiggia, ma non lo affascina nel suo decorso più usuale, bensì nelle sue perversioni. A lui interessano le devianze, i disturbi, i calci sotto il tavolo, le umiliazioni, l’ansia ingenerata dall’accalcarsi del pubblico, le dinamiche perfide dei circoli di scacchi, i tentativi di distrarre l’avversario che è in vantaggio, le modalità suicide del sacrificio e del ritiro, il gusto voyeuristico del kibitzer, che è colui che ama vedere giocare come gli dei dell’Olimpo si affacciano a vedere dall’alto le vicende umane.”

Il professore, nel corso delle sue indagini, segue un piano per sconfiggere il suo avversario mortale e invisibile, ma commette degli errori e si lascia trascinare nella trappola che l’altro gli ha teso con sapienza e ingegno. E così, inevitabilmente, scopre che, non uno, ma diversi tra i suoi colleghi (e finanche allievi) potrebbero avere interesse a distruggerlo, umanamente e professionalmente, e a scalfire la sua immagine di uomo illustre, da tutti rispettato.

Il punto è che, in questa estenuante partita, egli non si rende conto di giocare perennemente sulla difensiva rispondendo passivamente alle mosse dell’avversario, senza mai capire fino in fondo qual è lo scopo del gioco e perché il nemico invisibile ha scelto di colpire proprio lui.

Il mondo intorno al quale si svolge la vicenda descritta nel romanzo si rivela permeato di rancori e gelosie professionali. Nessuno è soddisfatto dal proprio lavoro, ogni personaggio tira avanti stancamente la propria vita senza apprezzare la bellezza della letteratura, dell’arte, della poesia. Ciascuno vive di meschine soddisfazioni quotidiane e i rapporti umani si riducono a meri giochi di potere. Insomma, si ha la sensazione che in quel mondo, privo di gioie e di sorrisi, non ci siano eroi, ma solo sconfitti.

Una sottile malinconia pervade le pagine del romanzo; ambizioni frustrate animano aride vite, che, come un castello di carte, sono destinate a crollare al primo soffio di vento.

É impossibile provare empatia verso qualunque personaggio, compreso il protagonista, personaggio serioso e ipocrita, ma comprendiamo e commiseriamo la sua sofferenza, il suo vano desiderio di rimediare all’offesa subita riconquistando, agli occhi dei colleghi e degli studenti, il suo ideale scettro professorale.

Il lettore si domanda smarrito: come è possibile che la dignità di un essere umano possa dipendere da qualche inesatta definizione o da una presunta imprecisione filologica? Eppure, una volta iniziato, il gioco andrà avanti fino alla fine. E l’accertamento della verità avrà un costo molto alto, non soltanto per il professore.

Come è nata la passione di Giuseppe Pontiggia per gli scacchi?

Ebbene, su un vecchio numero della rivista: “I Due Alfieri” ho scovato un breve articolo di Pontiggia che affronta l’argomento. Sono poche pagine (riprese da un altro scritto che risale al 1978) ricche di ironia e umanità che illustrano anche il suo pregevole stile letterario.

L’intero testo lo troverete in questo bell’articolo scritto nell’anno 2013 da Mariateresa Trabattoni sul nostro blog.

“Da ragazzo ho sognato di diventare un campione di scacchi. I sogni notturni pare che durino normalmente pochi minuti, mentre quelli diurni, a occhi aperti e mente sveglia possono durare molto di più a volte anche tutta una vita. Il mio è durato due anni tra i quattordici e i sedici ed è cominciato quando sono riuscito a battere il mio maestro. Tristo è il discepolo che non lo avanza, dice Leonardo. Si trattava, nel caso particolare, di mio zio di cui non avevo valutato a sufficienza i limiti scacchistici, così che il successo mi esaltò.

Poi affrontai mio fratello che durante le partite chiedeva ancora chiarimenti sulle regole e riuscii a batterlo addirittura alla cieca ossia con gli occhi bendati; mio fratello era stupefatto che potessi giocare su una scacchiera mentale e facile com’era, almeno allora, all’entusiasmo, si lasciò dare affascinato lo scacco matto.

Non conoscevo ancora l’aurea regola degli scacchi che per migliorare bisogna giocare con avversari superiori, ma di poco: se lo sono troppo si è schiacciati senza capire neanche perché, se sono inferiori non si impara. Io invece frequentando avversari deboli li vincevo, ma perdevo sempre più il senso della realtà.

Leggendo le biografie dei campioni, scoprivo inoltre coincidenze sorprendenti con la mia, almeno per quanto riguardava gli esordi. Vedevo meno bene in compenso le divergenze che invece erano essenziali. Ma è una miopia frequente.

Una differenza decisiva, ad esempio, è che il campione è stimolato da una fame di vittorie inesauribile, mentre la mia si saziava troppo presto.

Del resto bastava girare le sale di un circolo scacchistico per avvertirvi, debitamente mascherato da sorrisi e silenzi, un agonismo esasperato.

La prima volta che ci sono andato, sempre da ragazzo, è stata un’esperienza che non dimentico. Mi ero seduto a una scacchiera ansioso e timoroso di verificare la mia preparazione tutta teorica e solitaria e subito si sedette di fronte a me un signore anziano, con gli occhi vividi, che mi chiese: “Sai giocare? “sì”. Mi additò i pezzi: “Bianchi o neri?” “Neri” dissi lasciandogli il vantaggio della prima mossa con quella generosità che la gioventù istintivamente sceglie e la inesperienza alimenta.

Dire come giocai è un po’ difficile, perché non ero solo io a perdere, ma anche un gruppo di spettatori alle mie spalle che seguivano con commenti intolleranti, con consigli e deprecazioni le mie mosse. Erano disorientati e soprattutto irritati dal mio gioco, che alternava mosse corrette e sviste e ingenuità.

Privi della indulgenza dei maestri e soggetti probabilmente, anche se un po’ meno, alle mie stesse distrazioni, me le imputavano come se fossero volontarie, mi urlavano nelle orecchie: “Ma cosa fai?” Io sudavo, perdere non fa mai piacere, ma perdere anche per conto degli altri è un’esperienza durissima.

Quando abbandonai, mi senti infinitamente sollevato e anche loro credo.

Eppure la prova non bastò, forse era stata così violenta che sperai subito di cancellarla come quei pugili che quando vengono sorpresi da un colpo fanno cenno ai loro secondi o al pubblico che non è niente e invece proprio questa reazione denuncia il contrario. Così telefonai per avere un consiglio al maestro Ferrantes che dirigeva e dirige tuttora l’Italia scacchistica, e gli chiesi un incontro.

Una mattina di luglio afosa e umida entrai nell’anticamera freschissima di casa sua. Ferrantes mi accolse con la sua ruvida cordialità. Credo di avergli domandato che cosa bisognava fare per diventare un campione e lui mi disse subito: “Studiare e giocare molte ore al giorno”. Citò una frase di Rubinstein, che se un pianista dà concerti senza allenarsi, il primo giorno se ne accorge solo lui, il secondo qualche competente, il terzo tutti.

Poi mi mostrò la sua biblioteca scacchistica. Un titolo mi fece impressione, Strategia di avamposti. “Che cos’è?” gli chiesi. “L’avanzamento dei pedoni nel gioco moderno”. Sentii confusamente, a quel punto, che per me la partita era chiusa.

Da allora gli scacchi sono diventati per me una passione “indiretta”, come un amore che si può rimpiangere ma non provare. É sempre difficile comunque avere con il gioco un rapporto equilibrato una distanza giusta; l’atteggiamento ideale forse l’ha definito nelle sue Lettere spirituali quella singolare figura di “scettico credente” che è stato Giuseppe Rensi: “Bisogna per tutta la vita avere qualcosa di analogo a quel che il giuoco per i ragazzi, qualcosa che ci interessi come una cosa seria a cui dedicare una seria attività e che nello stesso tempo ci lasci l’avvertimento che non è nulla di essenzialmente importante”. (Giuseppe Pontiggia – Torino 12-8-1978).

Ecco come Giuseppe Pontiggia, in un altro scritto, discorre di scacchi e letteratura: “Scrittura e scacchi sono percorsi diversi, ma hanno molti punti di intersezione. Per esempio, negli scacchi è importante l’apertura: non si possono sbagliare le prime mosse per non pregiudicare l’intera partita. Anche nello scrivere è importante partire con il piede giusto. E questo lo dicono tutti quelli che scrivono con ambizione perché l’attacco apre delle possibilità precluse a chi dovesse muovere inizialmente i pezzi sbagliati”.

Ed ancora: “Un’altra analogia fra scacchi e scrittura è l’obiettivo. Lo scacchista si prefigge la morte dell’avversario. “Scacco matto”, in iranico, significa “il re è morto”. Scrivere è una sfida idealmente mortale in cui uno può non giocarsi tutte le sue carte, ma quelle più importanti sì. Non può sapere come si conclude la partita. Ogni mio romanzo, ma anche ogni saggio, è per me un viaggio di cui conosco il punto di partenza, ma non il punto d’arrivo”.

E ancora (dal “Giardino delle Esperidi”): “Gli scacchi sono l’unico gioco in cui una tradizione secolare si configura nel senso indicato da Eliot per la letteratura: immenso patrimonio che riprende a rivivere, riattualizzato ogni volta dai grandi giocatori, che vi attingono esempi, riflessioni, stimoli”.

Anche in un precedente romanzo, “l’Arte delle Fuga”, il tema del gioco, della vita, della partita a scacchi contro il destino, è ben presente. Ecco cosa scrive lo stesso Pontiggia su questo racconto: “Che cosa incontra il lettore in questo libro? Incontra fughe, inseguimenti, delitti, insomma il meccanismo e i fatti di un giallo: però ignora non solo chi è l’assassino, ma chi è la vittima. Compie un viaggio nel passato che rende stranamente archeologico anche il presente […]. Entra in un circolo scacchistico e in una metafisica del gioco […]. E l’investigazione che coinvolge i personaggi, intravisti come se si muovessero dietro vetri smerigliati, diventa alla fine un interrogativo sul destino della nostra specie”.

Qui troverete una bella intervista in cui Giuseppe (Peppo per gli amici) Pontiggia si racconta e parla della sua infanzia, delle sue passioni, del lavoro in banca per aiutare la famiglia dopo la scomparsa del padre, degli studi universitari, della sua immensa raccolta di libri, insomma della sua vita.

E non mancate di leggere uno dei suoi ultimi romanzi, il bellissimo e autobiografico “Nati due volte”, in cui racconta il difficile rapporto di un padre con il figlio disabile. “Perché i bambini disabili nascono due volte: la prima li vede impreparati al mondo, la seconda è affidata all’amore e all’intelligenza degli altri”.

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