Licenziato un direttore, se ne fa un altro, i giornalisti passano, panta Rei, anzi, panta Repubblica, il giornale resta, aveva scritto due giorni fa Maurizio Molinari al suo addio. Aveva ragione, in effetti, tutto passa, anche gli insuccessi editoriali, le ingerenze dei capi che scatenano lo sciopero dei giornalisti, le omissioni sui disastri dell’automotive firmati Elkann, gli scioperi degli operai, le bufale lanciate e mai esplose sul governo: è la stampa, bellezza, si fa per dire bellezza. Quello che non passa, come dimostra il primo editoriale del nuovo direttore Mario Orfeo, è quell’idea che “Repubblica” debba essere un giornale di parte a prescindere, fazioso come “l’Unità” senza mai essere stato un giornale di partito, parziale come il Byron Moreno di Italia-Corea del Sud nonostante la qualità eccelsa del suo corpo redazionale. Negli ultimi anni è andata così, negli ultimi due anni, poi, non ne parliamo, anche a costo di pagare un prezzo enorme in termini di copie e credibilità. Da oggi, però, sarà… ancora così.
Mario Orfeo esordisce con la solita solfa della destra sovranista, che ammazza i diritti, che non fa professione di antifascismo, e di una Meloni rancorosa, politamente brutta e cattiva, che sta rovinando l’Italia. A dispetto dei sondaggi che “Repubblica” è comunque costretta a pubblicare e che danno un consenso in crescita.
Incomprensibile non è che la testata si schieri nell’alveo del centrosinistra, in quel “campo aperto” – perché “largo al momento non sembra portare bene, progressista, lontano e opposto a chi alza nuovi muri e disegna confini più angusti”, scrive oggi Orfeo – nel quale la tradizione politica e culturale della testata fondata da Scalfari si colloca, ma piuttosto la miopia di non voler vedere, e tantomeno parlare, a una parte del Paese che era ed è maggioranza. Ma che se anche fosse minoranza dovrebbe avere diritto di “tribuna” sul secondo giornale cartaceo italiano. Un “lettorato”, senza la “e”, che – udite udite – spesso e volentieri legge “Repubblica” e non solo “Libero” o il “Secolo“, che guarda la Gruber o Formigli e non solo Del Debbio. Un lettorato che ha diritto, in nome della libertà di stampa, di essere raccontato, se non compreso, anche se vota a destra. Una destra borghese colta e interessata alla politica, moderata e conservatrice ma non succube della leadership o vetusta e arcaica da cartolina del Duce sul frigorifero, quella che legge i giornali anche per la cronaca, lo sport, la cultura, il meteo e l’oroscopo, ma che negli ultimi anni è stata costretta – da “Repubblica” edizione Bulgaria – a saltare le prime dieci pagine di politica. Non per disprezzo o dissenso, ma per noia, che è anche peggio, La speranza che il giornale potesse lanciarsi tra le braccia di Orfeo, senza abbandonarsi al sonno della ragione o della realtà, sembra stroncato sul nascere dallo stesso direttore napoletano di fede juventina. Bastian contrario, rispetto alle origini, ma solo nel calcio, a giudicare dal primo editoriale.
Il pericolo della dittatura mediatica – “Viviamo un tempo di populismi e sovranismi, di spinte nazionaliste in Europa e di eccessi da trumpismo in America, di rigurgiti e nostalgie in Italia per stagioni tragiche che pensavamo non tornassero più. Per questo sarebbe un grave peccato d’ingenuità dare per scontato il rispetto del diritto alla libertà di espressione e di informazione, soprattutto da quei poteri pubblici che non hanno mai abbandonato la tentazione di fissare limiti a questi spazi” – è la solita lagna (e i poteri forti che controllano i giornali, banche, Elkann, Cairo?) in stile Fratoianni, una robetta che perfino Travaglio non asseconda.
“Saremo un giornale moderno per un Paese moderno”, scrive Orfeo, che però parla solo a chi considera Fratelli d’Italia, il partito della premier, un nemico visibile. “In questi due anni, scanditi dalla retorica dell’underdog e da rimandi a un modello di thatcherismo mai pervenuto, quello che si è visto può essere riassunto per difetto: il no al salario minimo per i lavoratori, i tagli alla sanità pubblica, la riforma del premierato che mette in discussione perfino le prerogative del capo dello Stato, l’autonomia differenziata che allontana il Sud dal Nord, il piano sicurezza che vuole cancellare il dissenso, le scelte di politica industriale contrarie a quelle utili a fronteggiare una seria crisi economica”. L‘è tutto da rifare, per Orfeo: “’ossessione dell’egemonia culturale inseguita con i divieti e accompagnata da una occupazione del potere senza selezione che ha causato numerosi e imbarazzanti incidenti di un percorso già accidentato. Ma il segnale veramente distintivo di questa destra, così diversa da quella classica e liberale, è la leva permanente del risentimento. La destra di Meloni, perciò patriottica e mai antifascista, resta (volontariamente) bloccata su un passato — quello dell’esclusione — che non passa, sorretto dal rancore nell’attesa di una rivincita anche adesso che ha vinto. Una filosofa della politica mi ha citato Gramsci e la sua definizione di cadornismo politico: per la destra italiana una cosa è giusta solo perché decisa da chi comanda e se non viene attuata la colpa è di chi si oppone’. Detto senza rancore”. Senza rancore, eh. E senza Molinari. Ma siamo sicuri che Orfeo non sia uno pseudonimo?
L'articolo “Repubblica” tra le braccia di Orfeo. Primo editoriale, solita lagna su Meloni brutta e cattiva sembra essere il primo su Secolo d'Italia.