Un campione dentro e fuori il campo da gioco, un uomo estraneo a una certa narrativa che – oggi più di allora – non ammette sfumature o permeabilità. Eraldo Monseglio fu terzino della nazionale italiana di Vittorio Pozzo che vinse per ben due volte consecutive il campionato del mondo di calcio. Erano gli anni del Regime e una forte amicizia lo legava alla famiglia Mussolini e – in particolare – a Benito. Fu proprio lui, infatti, a insegnare al capo del fascismo a giocare a tennis. Ma non è per questo che vale la pena ricordarlo. E neanche perché è nella Hall of fame della Federcalcio, dettaglio che da solo vale tantissimo.
La sua vicenda supera di gran lunga le imprese sportive con l’Italia, il Bologna e la Roma. E fa il paio con i drammi che hanno lacerato l’intera nazione: lo scoppio della guerra e l’epilogo tragico del fascismo, la Repubblica sociale italiana. Alessandro Fulloni, giornalista del Corriere della Sera, mette assieme i cocci di una storia per molti aspetti sorprendente e inedita. E lo fa con Il terzino e il Duce. Eraldo Monzeglio, il romanzo di una vita. Dai Mondiali del 1934 ai misteri di Salò (ed. Solferino).
Era un fascista, un «fascista perbene» che contribuì a salvare la vita al partigiano Giuseppe Peruchetti, ex portiere della Juventus, dell’Inter e della Nazionale condannato a morte dai fascisti perché sorpreso a trasportare armi. Ecco chi era: un uomo che ha vissuto appieno la militanza in nero, ma che aveva rapporti anche con gli antifascisti, per questo fu odiato da Claretta Petacci.
Una vita da film. Nel 1942, per propagandare l’impegno dell’esercito italiano nel conflitto, indossò la divisa partendo per il fronte russo, dove conobbe il volontario Gianni Agnelli, «l’Avvocato». Dopo l’8 settembre seguì Mussolini a Salò ed entrò a far parte della sua segreteria in qualità di addetto agli «incarichi speciali».
Partecipò al tentativo, poi fallito, di liberare Galeazzo Ciano, in carcere a Verona per il voto del 25 luglio che fece cadere il Regime. Contemporaneamente, accompagnò alla frontiera svizzera alcuni ebrei braccati dalle Brigate nere e dalle Ss. Allo stesso tempo, però, aiutò Vittorio Mussolini – il figlio del Duce ricercato dalla Resistenza – a fuggire dall’Italia. Non era un doppiogiochista, ma un uomo fedele alla propria coscienza.
Fu a Como nelle ore drammatiche, e fitte di interrogativi irrisolti, in cui la Repubblica di Mussolini si dissolse tra gli odi di un conflitto fratricida. Finita la guerra, fu classificato tra i «most wanted» e ricercato dai partigiani. Nonostante ciò, tra il 1945 e il 1946, grazie all’intercessione del Comitato di Liberazione Nazionale, fu chiamato ad allenare i Biancoblù.
Nel 1947, a chiamarlo sulla panchina della Pro Sesto, la squadra di Sesto San Giovanni, la «Stalingrado d’Italia», furono addirittura il sindaco-partigiano Abramo Oldrini e Benvenuto Cossutta, dirigente calcistico e padre di Armando, il futuro dirigente di Pci, Rifondazione e Comunisti italiani. Poi ci sarà l’approdo al Napoli di Achille Lauro, una parentesi entusiasmante lunga sette anni (un record ancora imbattuto).
Monseglio non rinnegò mai la sua storia, semmai decise di non raccontarla. E non lo fece neanche davanti alle insistenze di giornalisti del calibro di Antonio Ghirelli, Gino Palumbo e Giovanni Arpino. «Racconterei fatti – spiegò – che riguardano troppa gente ancora viva. Darei troppi dispiaceri, ci son cose che poi è meglio che non si dicano e che è meglio dimenticare, seppellendole nella tomba». Morì a Torino il 3 novembre 1981. Che cosa sapeva Monzeglio dei tentativi di Mussolini di agganciare gli Alleati, dei carteggi con Churchill, dell’oro di Dongo? Ed è proprio su questi misteri che Alessandro Fulloni, grazie a ricerche d’archivio meticolose, ha qualcosa da dire.
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