Un gigantesco affare, una permanente e redditizia operazione di marketing, un tormentone che non può finire perché rende bene, anzi benissimo: questo è Mussolini, il Duce, vivisezionato da autori alla Scurati che ne hanno fatto un tale successo da riproporlo in tutte le salse, in un delirio di onniscienza mussoliniana e blasfemia letteraria che fa sentire lo scrittore napoletano una specie di contraltare di Renzo De Felice.
A distanza di quasi ottant’anni il profilo austero e la voce stentorea di M solcano il tappeto rosso veneziano, fanno più notizia di Brad Pitt e George Clooney, trasformano Luca Marinelli, ottimo attore, in una specie di divinità del grande schermo, con il suo ostentato lavoro introspettivo, da “antifascista convinto”, per portare sullo schermo il grande dittatore.
Lacrime a dirotto, per lui e per il regista, a spiegarci quanto sia logorante interpretare un personaggio così.
E certo, sarà stato un ingaggio da opera civile quello del buon Luca, un obolo intellettuale da donare alla democrazia minacciata dal fascismo di ritorno, mica un lauto compenso per un film che, siamo pronti a scommetterci, incasserà milioni ai botteghini.
La realtà, mascherabile dietro qualsiasi esercizio retorico, è che M continua ad essere un buon affare e nessuno si sottrae alla cinica monetizzazione di questo fenomeno di marketing; nessuno che proponga di far “calare l’oblio”, vista la distanza temporale dalla caduta del regime, nessuno che ritenga preferibile affidare agli storici il compito di parlare di storia, tutti impegnati, invece, in una operazione “Predappio al contrario”.
In fondo non è mercificazione della nostalgia anche questa, a pensarci bene, con l’aggravante di sfruttare il periodico riproporsi del “pericolo fascista” in politica, oggi incarnato dalla temibile quarantasettenne Giorgia Meloni e dai suoi accoliti?
Scurati non è solo, vista l’incredibile produzione letteraria che ancora oggi fa vendere in Italia tanto da avere interi scaffali dedicati nelle librerie, in bella mostra, senza alcun pudore o simbolica rimozione militante: Mussolini, in tutte le salse, le sue donne, l’eredità storica, i misteri, i vizi; tutta roba che vende bene, fa cassetta, rende molto di più della paccottiglia nostalgica di Predappio, seppure anche in quel caso i Sindaci, di sinistra, si sono ben guardati dall’impedirne l’ostensione rituale, perché porta turisti nella cittadina romagnola, fa folklore ed economia.
In questo ipocrita e strapaesano turbinio di affarismi della memoria, l’unica cosa che si perde di vista, ma è del tutto secondario, è proprio il rigore scientifico e l’approccio storico a un periodo difficile e controverso della storia d’Italia, con il corollario lacerante della guerra civile, finito nel 1945, con i suoi errori ed orrori, insieme alla fine della seconda guerra mondiale.
Fa molta più “cassetta” il mito, la fascinazione, la involontaria (?) mitizzazione del Duce, l’accostarlo ieri a Berlusconi oggi a Giorgia Meloni, attribuendo a un periodo circoscritto della nostra storia quasi una capacità religiosa e messianica di permeare animi e coscienze per l’eternità.
Una specie di democrazia sospesa parametrata sul fascismo latente dei suoi governanti.
E invece è quasi sempre una questione di “zeri”, di fatture, di incassi, di ritorno nel breve termine, per una politica che incassa consenso dalla riproposizione, non rielaborata, dell’antifascismo tout court, piuttosto che preoccuparsi di costruire una alternativa, una visione del mondo, una idea di futuro.
Il figlio del Secolo, in fondo, non è che il più grande “affare” del secolo, roba da fatturato importante e da prima serata al Festival di Venezia.
Sul tappeto rosso sfila ancora Lui, più ingombrante delle lacrime del buon Marinelli, la gallina postuma dalle uova d’oro per più generazioni di intellettuali e letterati italiani.
Perché dovrebbero volersene liberare per davvero?
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