L’Incubo o il sogno? Cosa succederebbe se, all’improvviso, tutti i maschi sparissero dalla faccia della Terra? È la premessa, tanto surreale quanto provocatoria, che dà la stura al romanzo breve “Il ritorno delle Amazzoni”, l’ultimo lavoro di Antimo Manzo, fresco di stampa lo scorso 6 settembre, per l’editore Colonnese.
L’autore, molto noto nella sua terra napoletana, dove è stato dirigente sindacale e comunale, oltre che più volte assessore, è un’intelligenza vivace e curiosa, con alle spalle numerosi e fortunati saggi dedicati alla storia del Mezzogiorno d’Italia. Stavolta, però, ha deciso di misurarsi con un’opera decisamente lontana dai suoi canoni abituali: una storia sì, ma di pura invenzione, anzi che potremmo definire distopica. Un racconto che si muove sul filo sottile del paradosso e della suggestione, immaginando un futuro indefinito ma prossimo, mettendo le mani – in maniera garbata ma esplicita – nella materia incandescente di un tema delicato e di stretta attualità come quello della parità di genere.
Un mondo abitato solo da donne, dal quale il sesso maschile si è volatilizzato senza apparente spiegazione (in realtà un motivo c’è, ma si scoprirà solo nel finale e non ci permettiamo di svelarlo): questo il palcoscenico nel quale si svolge la vicenda concepita da Manzo, che si spinge a immaginare nel dettaglio come si riorganizzerebbero la politica, l’economia, l’informazione, le famiglie, le istituzioni internazionali, l’Europa e l’Italia – aggiungendo quindi il suo contributo a un antico filone letterario che getta le sue radici nientemeno che nella commedia aristofanea de “Le donne al parlamento”.
Un libro agile, vivace, leggero, scritto con toni divertenti e a tratti anche apertamente ironici, che ha il pregio di affrontare un argomento fin troppo inflazionato con una voce insolitamente aliena dalle ipocrisie e dai preconcetti, e proprio per questo spinge il lettore a una riflessione non banale sul rapporto tra uomini e donne, nella società di oggi e in quella che potrebbe venire un domani.
Già, perché, per quanto in questo caso sia semplicemente frutto della fantasia di un prolifico scrittore, l’idea di una cancellazione totale del cromosoma Y sembrerebbe il sogno proibito che abita le notti di certe esponenti del femminismo fondamentalista e radicale. Quelle, per intenderci, che hanno trasformato le sacrosante rivendicazioni di un ruolo più centrale delle donne, anche nelle posizioni di potere, in un’assurda crociata contro il presunto oppressore maschile e maschilista. Come se avessero talmente internalizzato le modalità di oppressione da volerle riproporre nella direzione opposta (una teoria antropologica già ben spiegata da Franz Fanon e Michel Foucault). Come se, insomma, un’ingiustizia si potesse sanare con l’ingiustizia uguale e contraria.
Dietro a questa concezione distorta si nasconde un equivoco di fondo. Il famigerato patriarcato viene troppo spesso interpretato come una bieca congiura degli uomini che, per gelosia o misoginia, avrebbero assunto il controllo del potere assoggettando le donne, relegandole alla sfera domestica, discriminandole e privandole dei loro diritti. In verità, risalendo indietro nel tempo, scopriamo che le divisioni di ruolo sulla base del genere hanno avuto una genesi molto diversa: sono state introdotte spontaneamente, per rispondere a esigenze di coordinamento pragmatiche ed elementari.
Già nell’età della pietra le funzioni erano state suddivise in maniera complementare tra i maschi, che si occupavano della caccia grossa, e le femmine, in maggioranza incaricate di raccogliere frutta e verdura e allevare i figli: proprio quest’innovazione organizzativa aveva dato alla specie Homo sapiens un vantaggio evolutivo rispetto ai progenitori Neanderthal, consentendo loro di diffondersi dall’Africa nel resto del mondo.
Dopo la rivoluzione agricola si rese ancor più necessario che chi portava avanti la gravidanza non si sobbarcasse le fatiche e i rischi del lavoro nei campi. Se era facile, per una ragazza incinta, utilizzare un bastone per percuotere una pianta selvatica o scavare nel terreno, non altrettanto agevole si rivelava manovrare un pesante aratro trainato da animali, che richiedeva uno sforzo fisico faticoso e rischioso: in effetti, come hanno studiato le stesse sociologhe femministe Joyce Nielsen e Janet Chafetz, coloro che azzardavano quest’impresa erano soggette a un numero elevatissimo di aborti spontanei.
Non furono dunque gli uomini a rubare alle donne il compito di produrre il cibo: si trattò di una decisione concordata da entrambi, la migliore che potessero prendere nel contesto tecnologico di quel tempo. Solo in seguito tale polarizzazione si è stabilizzata e incancrenita, promuovendo l’assurda convinzione di una presunta inferiorità intellettuale del cosiddetto “sesso debole”, ed è diventata il fondamento dell’ingiusta discriminazione femminile.
Oggi abbiamo preso coscienza del fatto che tutti gli individui meritano di godere degli stessi diritti, indipendentemente dai loro caratteri anatomici e fisiologici, e abbiamo gettato le basi per decostruire questo modello, divenuto ormai inadeguato e obsoleto, causa di non poche sofferenze. Ma la via d’uscita non è una folle quanto infantile guerra maschi contro femmine, con l’intenzione di annichilire e distruggere l’avversario: semmai una rinnovata alleanza tra i due sessi, che accantoni le pretese di predominio, orientata all’obiettivo comune di costruire un mondo più giusto per tutti.
Esattamente come, già nel 300 avanti Cristo, si concludeva la già citata commedia di Aristofane, con la scena di un grande banchetto al quale partecipava tutta la cittadinanza. Per sapere come andrà a finire il romanzo “Il ritorno delle Amazzoni” di Antimo Manzo, invece, dovrete leggerlo da voi.
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