Si può dire che Stefano Zecchi, filosofo e romanziere che ha insegnato Estetica a Milano, ne abbia viste davvero tante. Di cerimonie inaugurali non soltanto olimpiche e altri eventi choc. E non sarà la rappresentazione parigina dell’Ultima cena in funzione di un fantomatico «New gay Testament», così com’è stato definito da Barbara Butch, la dj della rappresentazione, a fargli perdere il sonno. Non completamente, almeno. Perché c’è dell’altro a disturbarlo e va ben oltre «l’innegabile cattivo gusto della cerimonia».
Professore, cos’è che non riesce a digerire di tutta questa vicenda?
«Il mio rammarico è che queste Olimpiadi avremmo potuto organizzarle noi. Ma l’opposizione di quattro idioti lo ha impedito».
Si riferisce a Virginia Raggi e al no dei Cinque stelle?
«Hanno montato un casino da stupidi senza capire che queste sono occasioni per manifestare l’immagine politica del proprio Paese, per imporla agli altri. E i francesi lo sanno perfettamente».
Ritiene che la Francia abbia voluto inviare, seppur in modo sgradevole, un messaggio politico-culturale al globo?
«Quando si parla di grandeur non si ha a che fare con un luogo comune, ma con un dato reale che nei francesi, e nei parigini in particolare, è molto presente. E la vogliono trasmettere al mondo assieme a una certa idea di Francia e di Europa».
Che immagine hanno lanciato?
«Dal punto di vista etico e dell’attacco alle religioni è stato uno spettacolo di pessimo gusto, ma non credo che il designer si sia posto questo problema. Anzi».
E che problema si è posto?
«Certamente è stato blasfemo, magari un po’ kitsch. La scelta di rappresentare Maria Antonietta con la testa in mano è francamente di dubbio gusto. Ma l’arte, oggi, è per l’80% provocazione. Questo è il punto».
Il parallelo con l’Ultima cena di Leonardo, così come è stato affermato, va ritenuto un abbaglio collettivo?
«Certo che no. È stata una scelta voluta, mi sembra talmente evidente. Anzi, evidentissimo. Una scelta sfumata con altre simbologie o metafore, ma certamente voluta. C’era la volontà di dar fastidio, è chiaro. E ci sono riusciti. Chapeau».
Per la prima volta, la cerimonia inaugurale si è tenuta fuori dai luoghi abituali, superando quell’immagine – anche sacra – che vede nello stadio il tempio dei valori olimpionici. Che significa tutto ciò?
«Anche qui, la Nazione organizzatrice ha voluto rompere tutti gli schemi, far valere la propria grandezza. Creare un evento nell’evento, comunicare sé stessa. La Senna è un bellissimo fiume, ma non imponente come lo può essere ad esempio il Danubio…»
Certamente.
«E mi faccia dire una cosa: mi faceva tanta malinconia vedere gli atleti stipati in imbarcazioni invisibili, in alcuni casi condivise da tre o quattro Nazioni. C’era qualcosa di grottesco in tutto ciò, davvero».
Professore, quand’è che l’arte smetterà di essere soltanto provocazione?
«Grazie al cielo, quella stagione sta tramontando: l’ho potuto notare anche alla Biennale di Venezia. Credo che a breve verrà fuori un’altra idea della simbolicità. Si andrà oltre il puro e semplice uso della blasfemia o della distruzione».
E la bellezza quando tornerà a essere la bussola delle arti?
«Guardi, quando trent’anni fa affrontai il tema della bellezza mi dissero che ero un provocatore fascista. Mi dicevano che la bellezza non era giovinezza-giovinezza-primavera-di-bellezza…»
E oggi?
«Oggi, invece, è divenuta una parola detta in ogni angolo della strada, detta anche male, in modo effimero e sbagliato».
Qual è l’errore di artisti e designer contemporanei?
«Dostoevskij sosteneva che sarà la bellezza a salvare il mondo. Oggi, invece, siamo costretti a dire che è la bellezza a doversi difendere dal mondo. Di certo c’è che non potremo fare a meno della bellezza: per questo motivo il mondo della creatività dovrà necessariamente cambiare».
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