Buono per guidare il fronte della sinistra contro l’avanzata del Rassemblement National, Jean-Luc Mélenchon è invece inservibile per il governo della Francia. E, infatti, ottenuto il risultato di impedire a Marine Le Pen e Jordan Bardella di conquistare la maggioranza assoluta alle urne e in Assemblea nazionale (dove comunque il Rn è il primo partito francese), ora il cordone sanitario che si definisce repubblicano si stringe intorno a lui, quasi fosse un servo sciocco di cui liberarsi una volta che ha svolto la sua funzione. Troppo radicale e incompatibile non solo con le altre forze politiche, con cui pure ha fatto cartello, ma con l’idea stessa di traghettare la Francia in un momento difficilissimo della sua storia, a partire dai temi economici e dalle loro ripercussioni sociali. Non si sa come finirà, e secondo alcuni osservatori potrebbero volerci anche mesi prima che il quadro di governo si definisca. Ma intanto Mélenchon, sebbene non abbia i numeri, ha già lanciato la sua Opa: “Il presidente deve accettare la sconfitta, il primo ministro deve andarsene. Il presidente deve chiedere al Nuovo Fronte Popolare di governare”, ha detto subito dopo i primi exit poll.
Il primo problema di Mélenchon è che, in realtà, il Fronte popolare politicamente non esiste. Tra lui e il leader socialista Raphael Glucksmann, che guida la seconda forza del cartello elettorale e che ha raddoppiato i propri seggi in Assemblea nazionale, le posizioni sono distanti. Spesso molto distantissime, come sull”Europa. Glucksmann è un europeista convinto, Mélenchon guarda con insofferenza a Bruxelles. Con Macron, poi, neanche a parlarne: i due sono agli antipodi su tutto e, non a caso, sono stati e restano nemici giurati. Sull’Ucraina, per esempio, Macron è un interventista come ce ne sono pochi in Europa; Mélenchon, sebbene in questa campagna elettorale abbia un po’ glissato, in passato ha assunto posizioni giustificazioniste sull’invasione russa, addossando la responsabilità alla politica della Nato, sulla quale – va da sé – è stato estremamente critico.
Ma se la politica estera, nel sistema francese, è appannaggio esclusivo del presidente della Repubblica, e dunque potrebbe non rappresentare un ostacolo insormontabile, lo stesso non vale per i temi economici. Che sono poi quelli al centro della grande crisi sociale francese. I conti di Parigi sono in rosso, anche per questo Macron ha dovuto realizzare riforme dolorosissime per il Paese, come quella delle pensioni. L’anno scorso il deficit si è attestato al 5,5%, è stato stimato che quest’anno possa arrivare al 5%. Dunque, ancora molto lontano dal 3% richiesto dal Patto di stabilità e la Francia rischia la procedura di infrazione già a metà luglio. In più adesso ci si mette la “cura Mélenchon”.
Il leader della France Insoumise ha annunciato di voler rifiutare il Patto di stabilità, così come le regole della concorrenza nei servizi pubblici e i trattati di libero scambio. Soprattutto, però, il “tribuno”, come viene chiamato Mélenchon, ha detto di voler cancellare la riforma delle pensioni voluta dal presidente, di voler aumentare di circa 300 euro il salario minimo, di voler ripristinare la scala mobile, vale a dire l’indicizzazione di salari e pensioni, di volere l’aumento delle imposte e dei prezzi dell’energia e di voler lanciare una “grande legge sulla sanità”. Un libro dei sogni che porterebbe la Francia al collasso.
I conti li ha fatti l’Ispi, l’Istituto di studi di politica internazionale, che ha stimato che il costo delle promesse di Mélenchon per il solo 2025 potrebbe superare i 100 milioni di euro, equivalenti al 3% del Pil. Il rapporto deficit/Pil arriverebbe così all’8% e potrebbe essere finanziato in un unico modo: con una raffica di tasse, già in parte annunciate, su patrimoni, asset finanziari, imprese e redditi più alti. Aggiungendo ulteriori elementi di instabilità sociale, alla già precaria situazione francese.
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