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Premierato e autonomia tracciano un futuro nel segno di libertà, partecipazione e responsabilità

L’approvazione in prima lettura al Senato del disegno di legge costituzionale per l’introduzione del cosiddetto premierato elettivo e la quasi contemporanea approvazione del ddl di attuazione del cosiddetto regionalismo differenziato segnano la prima tappa di un opportuno “rilancio” democratico e partecipativo, atteso dall’inizio degli anni Novanta.

Si tratta di uno scatto riformista necessario per colmare il fossato che negli anni ha progressivamente allontanato i cittadini dalla politica e dalle istituzioni. Ciò a dispetto del diffuso conservatorismo istituzionale di una parte della classe politica e di un certo ceto intellettuale ad essa collaterale, che da decenni si alimentano reciprocamente, tentando di schiacciare, con una ricorrente manovra a tenaglia, qualsiasi tentativo di riforma costituzionale.

Il dibattito sul premierato e sul regionalismo differenziato, proprio per la rilevanza della posta in gioco, dovrebbe invece essere improntato a chiarezza e, soprattutto, a buona fede; ferma restando, ovviamente, la legittima dialettica tra differenti visioni politiche e istituzionali. In altri termini, politici e intellettuali avrebbero il dovere di giocare “a carte scoperte” con i cittadini, evitando strumentali cortine fumogene e pericolose narrazioni apocalittiche, prive di reale fondamento costituzionale.

Quanto al premierato occorre, allora, mettere in evidenza come la scelta non comporti affatto – come, invece, paventato da un rodato circuito politico-accademico-giornalistico – lo “svilimento del Parlamento”, né lo “stravolgimento del ruolo di garanzia del Capo dello Stato”, né, tantomeno, la “violazione del principio di separazione dei Poteri” o di altri principi fondamentali dello Stato di diritto. Si tratta, piuttosto, di mettere in evidenza che si tratta della chiara alternativa tra due opposte visioni politico-costituzionali, entrambe legittime e perfettamente aderenti alle tradizioni del costituzionalismo occidentale.

Al netto dei tecnicismi, chi sostiene il premierato elettivo ritiene che – in un quadro di principi e valori costituzionali ormai diffusamente condivisi – sia giunto il momento di attribuire la scelta dei Governi e delle sottese maggioranze politico unicamente ai cittadini-elettori. Chi, invece, sostiene il mantenimento dell’attuale forma di governo parlamentare continua a ritenere che debbano essere i partiti (spesso ormai contenitori privi dell’originario radicamento democratico) a “montare” e “smontare” in Parlamento le maggioranze e i Governi, magari ricorrendo alla massima estensione della “fisarmonica” dei poteri presidenziali e alla carta di riserva dei cosiddetti “Governi tecnici”.

Ebbene, secondo il disegno di legge di revisione costituzionale approvato in Senato, il Presidente del Consiglio direttamente eletto avrà gli strumenti per guidare la sua maggioranza in Parlamento, come già avviene nella maggior parte delle democrazie occidentali. Il premier potrà, infatti, chiedere lo scioglimento delle Camere in caso di approvazione di una mozione di sfiducia, di mancata approvazione di un atto su cui era stata posta la questione di sfiducia o, ancora, nel caso in cui, a prescindere da una formale sfiducia, ravvisi la necessità di restituire la parola agli elettori.

Saranno quindi i cittadini a svolgere, nel rispetto del principio democratico e della sovranità popolare, una “funzione arbitrale” nell’eventuale dialettica tra Presidente del Consiglio e Parlamento. Si tratta, a ben vedere, del medesimo potere di scioglimento che conferisce stabilità e, al contempo, elasticità alle differenti forme di governo di Inghilterra e Francia, allorché i vertici dell’Esecutivo (rappresentati, rispettivamente, dal Premier e dal Presidente della Repubblica) hanno la possibilità di affrontare le situazioni di crisi o di instabilità restituendo la voce alla primaria fonte di legittimazione di ogni organo rappresentativo, vale a dire al corpo elettorale. Niente di più, dunque, di ciò che hanno fatto prima Rishi Sunak e poi Emmanuel Macron nelle ultime settimane, assumendosi democraticamente e responsabilmente il rischio di una bocciatura da parte degli elettori inglesi e francesi, ma assicurando una rilegittimazione delle istituzioni attraverso le urne.

Analogo ragionamento vale per il ddl Calderoli che ha introdotto la disciplina quadro della cosiddetta autonomia differenziata. Occorre ricordare, innanzi tutto, che la genesi della differenziazione risale alla legge di revisione costituzionale n. 3 del 2001, approvata dall’allora maggioranza di centro-sinistra con appena tre voti di scarto. È, altresì, opportuno rammentare che il processo di attuazione costituzionale fu avviato dal Governo Gentiloni il 28 febbraio 2018, con la firma degli Accordi preliminari in merito alle intese previste dall’articolo 116, terzo comma, della Costituzione su istanza delle Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto. Si trattava di pre-intese sottoscritte “al buio”, senza la necessaria cornice di legislazione attuativa che definisse procedure e limiti della differenziazione regionale prefigurata dal vigente Testo costituzionale.

Con l’approvazione della legge “per l’attuazione della autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario” si definiscono le procedure e i limiti che varranno ad assicurare un percorso attuativo della previsione costituzionale sull’autonomia differenziata rispettoso del principio di unità della Repubblica. Le Regioni potranno così ottenere il trasferimento di tutte o parte delle ventitré materie indicate nell’art. 116 della Costituzione, ma senza pregiudizio per la garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep), che dovranno, piuttosto, essere definiti preventivamente e garantiti a tutti i cittadini senza distinzioni territoriali.

La normativa di attuazione del regionalismo differenziato potrà, quindi, costituire la base di partenza per l’innesco di processi virtuosi che condurranno ad una maggiore responsabilità delle classi dirigenti regionali e ad un percorso di progressivo allargamento delle prestazioni connesse a diritti sociali, che troppo spesso oggi sono assicurati in modo assolutamente disomogeneo (basti pensare, a titolo di esempio, agli essenziali servizi pubblici dei trasporti o degli asili nido). La rivedibilità delle condizioni di conferimento delle competenze e la garanzia costituzionale del minimo comune denominatore di prestazioni connesse ai diritti civili e sociali in tutto il territorio nazionale consentirà, dunque, la necessaria coniugazione tra efficienza, competitività e solidarietà.

Un credibile modello di crescita della comunità nazionale nel quadro europeo e mediterraneo si fonda inevitabilmente su modelli improntati ad istanze di libertà, partecipazione e responsabilità. Il premierato elettivo e l’autonomia regionale rappresentano lo scatto istituzionale necessario per costruire un futuro nel segno di quei principi.

*Ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico e Componente del Consiglio Superiore della Magistratura

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