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Stiamo vivendo una grande crisi? Non è certo la fine del mondo. Solo di “un” mondo…

Non so se ve ne siete accorti, ma pare che siamo in crisi. Il coro di quotidiani, telegiornali, siti d’informazione è unanime: a una sola voce ci ossessionano con la crisi economica, finanziaria, energetica, pandemica, bellica, climatica… Sarà, ma qualcuno di voi si è mai soffermato a cercare di capire il vero significato di questa […]

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Non so se ve ne siete accorti, ma pare che siamo in crisi. Il coro di quotidiani, telegiornali, siti d’informazione è unanime: a una sola voce ci ossessionano con la crisi economica, finanziaria, energetica, pandemica, bellica, climatica… Sarà, ma qualcuno di voi si è mai soffermato a cercare di capire il vero significato di questa definizione? Il termine “crisi” deriva dal greco “krisis”, vale a dire “scelta, decisione”, che a sua volta origina dal verbo “krino”, ossia “distinguere, giudicare”. A ben guardare, dunque, questa famigerata “crisi” che identifichiamo come una situazione instabile, problematica e stressante, per i nostri antenati non era altro che una possibilità di scelta: tra il vecchio e il nuovo, tra chi siamo stati fino a oggi e chi vogliamo essere domani. Un periodo di transizione, di cambiamento, proprio come quello che stiamo attraversando.

Entriamo in crisi ogni volta in cui uno schema d’interpretazione della realtà, un sistema di riferimento, una bussola per orientarci nel mondo non si rivela più adeguato a leggere il presente e a guidare i nostri progetti, decisioni e azioni. E quindi va cambiato. Il paradigma che ha retto la nostra civiltà occidentale negli ultimi tre secoli, quello basato sulla rivoluzione industriale, sulla scienza, sul materialismo, sul razionalismo, sulla competizione tra gli individui, ci ha permesso una crescita impensabile, ma ha anche causato una serie di problemi: la concentrazione della ricchezza nelle mani di poche élite, lo sfruttamento del pianeta, le guerre. Ecco perché siamo chiamati a superarlo, concependone uno nuovo.

Questa non è la fine del mondo, in altre parole: è la fine di un mondo. La nostra informazione smemorata ce la presenta come un’apocalisse senza precedenti: in verità non è la prima, e non sarà neanche l’ultima. Fin dall’inizio dei tempi l’evoluzione, biologica e culturale, ci ha condotti al costante aumento di due variabili. Da un lato la differenziazione: da un’unica forma di vita (l’ameba unicellulare) siamo arrivati a milioni di esseri viventi diversi, a migliaia di culture umane diverse. Dall’altro il reciproco collegamento: perché, più che mai nella società tecnologica e interconnessa, «il batter d’ali di una farfalla in Brasile può scatenare un tornado in Texas». Dunque, se non vogliamo pensare che la legge evolutiva abbia improvvisamente smesso di valere dopo qualche miliardo di anni, ciò vuol dire che la prossima epoca ci porterà a un’ulteriore crescita di differenziazione e di collegamento. Un mondo, dunque, ben diverso da quello immaginato dall’ideologia globalista: che non omologa né appiattisce le singolarità di ogni uomo e ogni territorio, bensì permette loro di fiorire e svilupparsi. Ma che, d’altro canto, non sfocia neanche nell’estremo opposto dell’autarchia o dell’individualismo. Ogni nazione ha le sue peculiarità e unicità, ma tutte sono interdipendenti tra loro. Per questo motivo costruire il bene comune significa mettere in comune il bene di ciascun individuo e realtà locale. Proprio come un corpo umano, che è sano quando ogni gruppo di cellule fa il proprio lavoro, diverso da quello degli altri, ma tutte insieme contribuiscono alla salute dell’organismo.

Vi sembra un’utopia? Forse perché non siete abituati a sentirvelo raccontare. Vi posso garantire che di persone, organizzazioni, aziende che stanno sperimentando nuovi modelli di sviluppo, concreti e funzionanti, ce ne sono tantissime: a loro ho dedicato il libro che ho recentemente pubblicato per l’editore Santelli, «La fine del mondo (non) è vicina», dove potete trovarne tanti esempi, se siete interessati. Per questo ho esultato leggendo l’editoriale del nuovo direttore Antonio Rapisarda, quando scrive di voler dar voce a quell’Italia «maggioritaria, ottimista e creativa». Siamo in tanti a farne parte e c’è tanto bisogno di raccontarla.

Non voglio illudervi: la creazione di un nuovo mondo, di una nuova Italia sarà sicuramente un processo lungo e laborioso. Eppure è possibile. Come sempre è accaduto nella storia, i modi di pensare e agire cambiano lentamente, ma inesorabilmente, partendo dall’esempio di quelle avanguardie visionarie e ostinate, che non hanno paura di battere strade mai percorse prima. All’inizio il mainstream potrà anche ostacolarle, eppure alla lunga prevarranno, per il semplice motivo che stanno dalla parte giusta della storia. Per quanto ricchi e potenti siano coloro che lo sostengono, il sistema in cui abbiamo vissuto negli ultimi trecento anni sta collassando su se stesso, perché ha fatto il proprio tempo: così come persino i faraoni, che pure regnarono per tremila anni ed erano considerati alla stregua di divinità, a un certo punto hanno dovuto cedere il passo all’inevitabile progresso. C’è una buona notizia: come scrisse Seneca, «il vento non si ferma con le mani». Nemmeno se le mani sono quelle di Bill Gates, Joe Biden o Vladimir Putin.

*Life e Career Coach

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