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Spaesati d’Italia. Nostalgici tra partenza e “restanza”

Sostiene Massimo Cerulo, professore ordinario di Sociologia nell’Università Federico II di Napoli e Chercheur associé al CERLIS (CNRS), Université Sorbonne de Paris Cité, in coppia con il sociologo milanese Paolo Jedlowski, emerito all’Università della Calabria, tra i più autorevoli studiosi di sociologia della cultura, che «più della metà degli italiani non vive nel posto dove è nato e, spesso, viaggia regolarmente tra più città. Che si parta per studio, per intraprendere carriere, per spirito d’avventura o perché si deve, nella biografia di ciascuno vi sono luoghi lasciati e ritrovati, confronti, tentativi di integrarsi, spaesamenti, ma anche affrancamenti e conquiste».

Sembrava sepolto il concetto di “spaesamento”, tanto caro all’antropologo napoletano Ernesto De Martino che lo elevò a disciplina di ricerca scientifica: da alcuni anni, invece, autorevoli sociologi lo hanno ricollocato non solo al centro del dibattito scientifico quanto, soprattutto per le ricadute quotidiane, in quello culturale.

Panorama.it ne ha parlato con il prof. Cerulo, di recente autore con il collega Jedlowski del saggio “Spaesati. Partire, tornare tra Nord e Sud d’Italia (Il Mulino, 2023): una ricerca che presenta “emozioni e vissuti” personali, una faccia-a-faccia tra due sociologi appartenenti a due diverse generazioni (Cerulo è del 1980, Jedlowski del 1952) “condotto anche a partire dalle loro esperienze personali: un professore milanese stabilitosi in Calabria e il suo allievo che ha vissuto il percorso inverso”. Insomma, “un piccolo contributo a una «storia intima» d’Italia, un esercizio di empatia per favorire la capacità di ciascuno di immaginare e comprendere l’altro”.

Professor Cerulo, cosa significa lasciare il luogo in cui siamo cresciuti? Chi diventiamo? Esistono identità senza dimora?

«“Partire è morire un pò”, come recita una poesia di Edmond Haraucourt. E oggi molti di noi vivono esistenze mobili. Nelle quali si parte (e si torna) continuamente. È chiaro, oggi abbiamo tutti in mente vite dove la mobilità assume contorni drammatici: esodi, fughe di massa, migrazioni più e meno forzate. L’attualità ne è piena e ne sono pieni i giornali. Ma quelle di cui ci siamo occupati nel nostro lavoro sono mobilità meno clamorose, meno notate, perché ordinarie. Si tratta di mobilità comuni, in un doppio senso: perché sono ordinarie, ripetute fino a entrare a far parte della vita quotidiana, e perché coinvolgono moltissime persone. Tuttavia, a furia di muoversi in continuazione si rischia di non avere più una dimora stabile, ma di vivere “a soggetto”: adeguandosi alla situazione e alla città in cui ci si trova senza mai approfondirla, viverla pienamente».

C’è un termine che colpisce immediatamente, quello di “spartenza”…

«“Spartire” vuol dire dividere qualcosa in due o più parti. Il verbo legato alla partenza crea il neologismo che descrive la lacerazione che caratterizza la persona che lascia un posto, di solito quello di origine, la propria “casa”, per cercare fortuna in altri luoghi. “Spartenza” vuol dire, dunque, lasciarsi con sofferenza, salutarsi senza avere certezza di rivedersi, lacerare pezzi di vita sentimentale costruita sia con le altre persone che in quel momento salutano il partente – e che, di conseguenza, provano a loro volta una lacerazione interiore pur restando nello stesso posto, dunque non muovendosi dalla loro casa – sia col luogo nei confronti del quale la persona che parte ha costruito e nutrito uno specifico humus».

Le sue riflessioni, aggiunte a quelle prospettiche di Jedlowski, permettono anche una riflessione sul tema, mai sopito, del rapporto Nord-Sud.

«Un rapporto complicato, lacerante per molti meridionali mobili. In questi casi, la “spartenza” si manifesta in termini corporali. È visibile. Corpi che si avvicinano, si toccano, si stringono, si confondono, per poi separarsi repentinamente, con la forza del dovere ma la sofferenza della volontà, in una danza che mette in scena la separazione dei corpi e, in un certo senso, la lacerazione degli spiriti. Chi non ha un ricordo, custodito o seppellito nella memoria, di separazioni traumatiche legate a motivi lavorativi o famigliari? Confrontandoci con amici e colleghi originari del Mezzogiorno sembra che tale “spartenza” riappaia sempre uguale ogni qual volta si ritorna nel luogo originario da cui si era partiti. E lì si verificano nuovi e vecchi incontri e, di conseguenza, nuove occasioni di inevitabile separazione».

Spostarsi permette anche di fermarsi, di conoscere luoghi di transito “nel mentre della mobilità”, i c.d. “luoghi terzi”. Chi di noi non li frequenta anche senza spostarsi nel senso tradizionale…

«Le soste sono ben più quotidiane di quanto si possa immaginare, poiché molti degli spazi che contornano le nostre mobilità si configurano come luoghi conosciuti, in cui ciascuno può svolgere diverse faccende: sbrigare impegni lavorativi, ottenere informazioni, ritagliarsi uno spazio di riflessione, incontrare altre persone. In termini socioantropologici, possiamo parlare di third places: “luoghi terzi” caratterizzati da una socialità informale, a metà tra l’ambito pubblico e l’ambito privato, tra l’intimo-famigliare e il lavorativo-professionale. È evidente come chi viaggia regolarmente si trovi a visitarne diversi di tali spazi: bar, ristoranti, autogrill, librerie, centri commerciali, panchine».

Ogni spostamento, per breve o lungo che sia, provoca spesso un sentimento di “nostalgia”. E’ in questo ambito che si condensano stati d’animo come “spaesamento” e “appaesamento”?

«Ernesto De Martino non cita esplicitamente la nostalgia, ma si sofferma su altre emozioni simili: l’angoscia, ossia lo stato più negativo della nostalgia, che si genera quando la paura per il non conosciuto prende possesso del soggetto, offuscandogli la capacità di ragionare. E poi la gioia di ritrovarsi nel proprio posto nel mondo alla vista del suo principale punto di riferimento spaziale. La nostalgia oscilla dunque tra stati d’animo di turbamento, dubbio, perfino paura, e serenità, senso di pace, gioia per le consuete e tranquillizzanti abitudini quotidiane. Una profluvie di emozioni che attraversa la persona viaggiante, in base a luoghi frequentati e persone con cui si interagisce».

A proposito: siamo in piena “sociologia della nostalgia” per dirla con Fred Davis…

«Fred Davis è il primo sociologo ad aver analizzato la nostalgia con gli strumenti delle scienze sociali. Il suo libro è del 1979, appena tradotto in italiano grazie al lavoro di Daniela Pomarico. Al crocevia tra gli anni Sessanta e Settanta, in un momento di violenti cambiamenti socioculturali, Davis annuncia il “boom della nostalgia”: un fenomeno che troverà le sue radici e il suo futuro nella nascente società postmoderna dello spettacolo e dei consumi. E mai come oggi, negli anni del digitale e dei social, la nostalgia si nutre di ricordi e di immaginazione, costruendo (o inventando, in ottica di strategia politica) forme di rielaborazione del passato e del futuro basate su incontri ed esperienze, vissuti o pensati. In effetti, immaginazione e nostalgia si configurano come due elementi che non possono essere separati nella costituzione di parti della propria identità: vanno a radicarsi nella strutturazione dell’io».

Un meridionale come lei si è trasferito al Nord, e fin qui tutto piuttosto consueto. Molto meno che un milanese (Jedlowski) decidesse di compiere il tragitto inverso…

«Il quadro dei movimenti migratori è molto mutato dai tempi in cui a muoversi, in Italia, erano soprattutto giovani con scarse qualificazioni provenienti dalle aree più povere e più tradizionali, verso le aree più industrializzate del paese. Il ricordo di quelle migrazioni, tuttavia, pare persistere; i pregiudizi di allora esistono anche ora e mi paiono esserne qualcosa come una deriva. Negli anni del boom economico, il Nord usò moltissimo questa forza-lavoro a buon mercato, ma la disprezzava. Fiorirono stereotipi e pratiche offensive. Non ci si preoccupava di conoscere i luoghi da cui questi immigrati provenivano. Di questa storia il nostro immaginario attuale è erede».

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