La mostra sul Cinquecento a Ferrara indaga, dopo i grandi maestri del Quattrocento, gli intrecci e le maturazioni parallele di quattro maestri, diversissimi tra loro ma in dialogo costante con i pittori veneziani e quelli fiorentini e romani. Il più curioso, Ludovico Mazzolino, lo abbiamo illustrato. Tocca ora a una personalità meno stravagante, ma di naturale classicismo, partita da Giorgione e Boccaccio Boccaccino per approdare, toto corde, a Raffaello senza perdere quella declinazione padana tipica dei ferraresi. Il momento fatale fu, per tutti, l’arrivo a Bologna nel 1516, dell’Estasi di Santa Cecilia di Raffaello. Il dipinto, concepito a Roma, fu inviato a Bologna per essere destinato alla chiesa di San Giovanni in Monte nella cappella della famiglia di Elena Duglioli dall’Olio. Per la figura di Elena, donna colta, devota e dedita ad opere di carità, si era diffusa in città, a partire dal 1506, una profonda venerazione: la sua vita era accomunata a quella di santa Cecilia per la castità vissuta all’interno del matrimonio e per le visioni mistiche (il suo culto come beata è stato confermato da papa Leone XII nel 1828).
Il soggetto ruota dunque intorno all’identificazione tra Cecilia ed Elena espressa nell’iconografia dell’estasi e nei temi collaterali: la rinuncia ai piaceri della vita mondana è rappresentata dagli strumenti musicali rotti e buttati a terra, mentre la santa non vede Dio ma sente la musica celeste nel canto degli angeli in coro. Giorgio Vasari, che è la fonte più antica, assegna la commissione al cardinale Lorenzo Pucci fratello del vescovo Antonio Pucci che, durante il suo soggiorno bolognese, era entrato in rapporto con Elena Duglioli dall’Olio. Dall’arrivo dell’opera la pittura ferrarese, in particolare Benvenuto Tisi da Garofalo, detto il Garofalo, e giovanni Battista Benvenuti, detto l’Ortolano, muoveranno verso l’elaborazione del loro stile. Ortolano parte vicino a Ercole de’ Roberti nel matematico «Compianto» di Baura, mentre Garofalo, partito nell’ambito boccaccinesco, coltiva una sintesi tra le numerose esperienze intercettate come si vede in freschi capolavori come la Pala di Valcesura e la Madonna col Bambino della Pinacoteca Capitolina. lntanto l’interesse di Alfonso era tutto per l’allestimento del camerino dei marmi, opera dello scultore Antonio Lombardo. Già nel 1512 Alfonso è a Roma per incontrare Giulio II, entrato a Bologna nel 1506. Senza esito ma con al seguito alcuni artisti ferraresi tra i quali Garofalo, che videro per la prima volta gli affreschi di Michelangelo e di Raffaello. L’11 luglio salirono sui ponteggi della Cappella Sistina e visitarono le Stanze Vaticane. Il duca fu molto colpito (come scrive Giovan Francesco Grossi a Isabella d’Este), e così certamente i pittori. Lo si capisce davanti al dipinto di Garofalo con «Minerva e Nettuno», datato al novembre del 1512 e già esemplato su modelli romani.
Dopo la morte di Giulio II Alfonso a Roma, per salutare il nuovo papa Leone X, a Ferrara la potente risposta al vento di Roma è il sostegno al sensibilissimo Garofalo di Dosso Dossi, documentato a Ferrara nel 1513, per il grande polittico commissionato da Antonio Costabili per l’altare maggiore della chiesa di Sant’Andrea. In Dosso, l’esigentissimo Alfonso trova l’artista perfetto per il suo progetto di modernità, «aggiornato sui fatti veneziani e romani ma declinato secondo un accento locale e strettamente personale. Pellegrino da San Daniele viene lasciato tornare in Friuli e Dosso per trent’anni sarà stipendiato dalla corte e utilizzato per una quantità di imprese». Per il camerino delle pitture nel 1514 arriva a Ferrara il Festino degli dei di Giovanni Bellini (oggi alla National Gallery of Art di Washington). Tiziano è a Ferrara già all’inizio del 1516, e dimora in Castello fino a marzo. Non arriveranno La Festa di Venere di Fra Bartolomeo e l’agognato Trionfo di Bacco di Raffaello.
Nel 1531 eseguì ancora le Nozze di Cana per il refettorio del convento di San Bernardino, presso il quale dal 1509 dimorava Camilla Borgia, nipote di Lucrezia. Per il cenobio Garofalo dipinse più di sedici opere, parte delle quali confluita, al pari delle Nozze, all’Ermitage. Nel 1532 la Madonna in trono tra i ss. Giovanni Battista, Lucia e Contardo d’Este (oggi a Modena, Galleria Estense) per Modena tornata sotto Ferrara. Diversa, anche se spesso confusa con la personalità del Garofalo, la figura di Ortolano resta più misteriosa e arcana pur dopo l’intensa lettura di Roberto Longhi nell’Officina ferrarese (1934), la monografia di Giuliano Frabetti del 1966, e il contributo di Federico Zeri (1971). Non si vedranno ora, ma restano capitali il Compianto della Galleria Borghese, del 1517, e la pala con i Santi Sebastiano, Rocco e Demetrio della National Gallery di Londra in origine nella la parrocchiale di Bondeno. Nella sua vicenda critica tutto appare indefinito. Agostino Superbi nel 1620 dice che l’Ortolano fu «pittore eccellentissimo, et famoso nominato per tutta Italia; le cui opere sono state levate, et mandate a Roma [...] et in altre Città principali per cose stupende, et eccellentissime, che l’anno fatto immortale sopra la Terra». Così Camillo Laderchi nel 1856 afferma esser «mille volte tentato a supporre che [l’Ortolano] non [sia] esistito se non di nome». La sistematica spoliazione del patrimonio artistico di Ferrara dopo la devoluzione ne fu la evidente ragione. Da allora tutto per Ortolano è difficile. Nessuna sua opera è firmata o siglata. Di una attività maturata in un trentennio è chiaro solo l’ultimo decennio, con il Compianto Borghese (1517), quello di Capodimonte (1521), la Santa Margherita (1524) oggi a Copenaghen e l’estrema, rarefatta Natività Doria-Pamphilj (1527). Tra il 1512 e il 1524, gli archivi a Ferrara indicano un Giovanni Battista Benvenuti, che potrebbe essere un altro. L’unica fonte che attesta la presenza nella città estense di un artista noto con lo pseudonimo di Ortolano è sulla copia del Compianto Borghese di Giulio Cromer, quando l’originale fu chiamato nella collezione del cardinale Scipione: «Io Julio Cromer copiai la presente opera dell’Ortolano nel mese di dicembre dell’anno 1607».