Inusuale allestire una mostra per raccontare un museo, ma quello di Gorizia che allinea i cimeli della Grande guerra merita una celebrazione speciale. Anche per la cadenza temporale «a cifra tonda»: un secolo dall’inaugurazione (8 giugno 1924) e 110 anni dall’esplosione del conflitto (28 luglio 1914). La rassegna è stata appena aperta a palazzo Attems Petzentein e prosegue fino al 27 ottobre. Il museo, invece, è ospitato nei seminterrati del Castello ma è attualmente chiuso (fino al febbraio 2025) per i lavori che lo rendano fruibile anche a chi non è in grado di superare agevolmente scale con gradoni asimmetrici.
Le mitragliatrici, le baionette e gli elmi d’acciaio sono sempre quelli, la loro disposizione, le didascalie che li presentano o i titoli che suggeriscono un quadro interpretativo offrono però «letture» differenti; al punto che il museo finisce per animare una «serie di musei» in sequenza: uguale a se stesso eppure «in movimento», assecondando l’evoluzione dei contesti sociali. Seguire gli adattamenti di un’esposizione di oggetti, in una chiave di continuo rivisitata, equivale a percorrere a zig-zag le metamorfosi del mondo. Come entrando in una capsula del tempo.
Ecco che la prima presentazione della raccolta di cimeli avvenne nel clima - ancora dolente - di una terra faticosamente impegnata a riprendersi dai disastri della guerra. I bombardamenti non avevano risparmiato nessuno ma, su qualcuno, si erano addirittura accaniti. Gorizia, sulla linea del fronte per l’intera durata del conflitto - austro-ungarica all’inizio dello scontro, conquistata dagli italiani (6 agosto 1916) e perduta dopo Caporetto (24 ottobre 1917) - si trovò rasa al suolo.
I palazzi della Belle époque e le case popolari (senza distinzioni) diventarono un cumulo di macerie, in un paesaggio lunare. Il Carso, in quei 34 mesi bestiali, come un’immensa caldaia, inghiottì interi reggimenti di reclute. Ragazzi di vent’anni marciarono verso il fronte per ingigantire le statistiche di morti e dispersi. O, in numeri altrettanto spropositati, tornarono storpiati nel fisico e stroncati nel morale. Il museo è stata la voce della rivincita. Gli austriaci rappresentavano il grande nemico che calzava scarponi chiodati, vestiva uniformi debordanti e mostrava il ghigno della sopraffazione. Sconfiggendo i nemici di sempre, l’Italia affermò la sua identità: anzi quell’«irredentismo» che aveva rappresentato la giustificazione ideologica del conflitto. Inutile la conta dei sacrifici di fronte a valori così alti. Le vittime vennero presentate nel segno di un eroismo «a 18 carati». Inappropriato considerarli con compassione perché avevano guadagnato la gloria eterna. Anche se, al cuore, non si poteva chiedere di rimanere comunque insensibile.
Lo scrittore Giani Stuparich triestino (e, quindi, austro-ungarico) disertò per indossare da volontario la divisa italiana. Si arruolò con il fratello Carlo che morì prima della fine del conflitto. Certo, immortale per la Patria ma figlio morto per sua madre. «L’incontro con lei» il ricordo di Giani «più sconsolato fu di quello che m’aspettassi. “Me l’hai affidato ma guardartelo non ho saputo e ti ritorno senza di lui”. Queste parole aveva preparato ma non ebbi voce per dirle e caddi ginocchioni davanti alla pietà di quella faccia».
Gli anni del fascismo imposero l’immagine dell’uomo guerriero e l’esaltazione della vittoria. «La Patria chiama a nuovi cimenti» l’ordine del giorno del Duca d’Aosta rivolto ai soldati della Terza Armata che comandava. «Ce lo chiedono gli alleati per aggiungere, ai loro, i nostri trionfi». L’architetto Celestino Petrone mutuò alcune scenografie dalla mostra realizzata, a Roma, per il decennale della Rivoluzione fascista. Il nuovo arredo del museo (1938) ebbe necessità di affidarsi all’approvazione di generali e prefetti capaci di garantire che i messaggi del regime venissero valorizzati. Fu il tempo delle colonie marine per i ragazzi, dei «boschi dell’Impero» e della nazionalizzazione forzata. In una terra di confine - obbligatoriamente multiculturale - venne proibito l’uso di altre lingue. I cognomi delle famiglie di origine slava vennero tradotti (quando possibile) o, peggio, storpiati per assicurare una fonetica italiana.
Con il dopoguerra, la città si trovò attraversata da un’altra frontiera: Gorizia con tre quarti di territorio al di qua del confine e il resto con Nova Goricia, dall’altro lato, parte della Slovenia, all’interno della Jugoslavia di Tito. I trattati affettarono le proprietà con scarso riguardo. Qualche contadino si accorse che il suo cascinale si trovava in uno Stato mentre le stalle erano accatastate nell’altro. Il cimitero della zona sud-est fu diviso in due senza badare che una fila di tombe stava a cavallo della frontiera. Un serpentone di un muro non così imponente come a Berlino ma pur sempre un groviglio di cemento armato certificò una distanza che, prima che fisica, voleva essere politica.
La diffidenza fra Roma e Lubiana ebbe carattere assai più accentuato dei rapporti civili fra la Gorizia tricolore e quella slovena. La cultura aprì la strada del dialogo. Con la parata dei gruppi folkloristici e il festival dei canti popolari, le città di confine riannodarono quei rapporti che le diatribe diplomatiche stavano compromettendo. Il museo dedicato alla Grande guerra si colorò con l’ironia dei disegni di Paolo Caccia Dominioni che (volontario nel Primo conflitto e patrocinatore del monumento ai caduti di El Alamein) utilizzò i suoi acquarelli per presentare un conflitto dai contorni umani. Dove la paura non era sinonimo di colpa, la gerarchia sociale non doveva conservare caratteri vincolanti e la discriminazione non poteva restare senza rimedio. L’ultima versione del museo dovette fare i conti con l’alluvione del 1983.
Il torrente Corno - di per sé un rigagnolo giusto indicato sui mappali più dettagliati - rovesciò sulla città una quantità d’acqua, di fango e melma di fogna. Fra i disastri: l’allagamento del palazzo dei musei. Gli eventi climatici estremi non sono un’esclusiva contemporanea. Molti documenti cartacei andarono perduti e il recupero degli aggetti - in particolare le divise - fu impegnativo ma, nel 1990, il museo - quarta versione - fu aperto al pubblico. Le scenografie, più che la dinamica delle battaglie, evidenziarono la fatica dei soldati e della popolazione.
In quegli anni, la vera battaglia fu combattuta contro una quotidianità che, ogni giorno, si faceva più selvaggia. I soldati popolarono le trincee che erano catacombe a cielo aperto. Uno addosso all’altro - come nelle Malebolge della Divina Commedia - diventando fisicamente intollerabili gli uni agli altri. Mangiavano e andavano al gabinetto; resistevano alla puzza che prendeva il cervello e tentavano di vincere la nostalgia; si sforzavano di dormire quando era necessario e s’imponevano di rimanere svegli se toccava montare di guardia. Rosicchiavano limoni che servivano da disinfettante e fumavano sigari perché il fumo nascondeva la puzza dei morti e l’odore dei vivi.
Ma anche chi non era arruolato aveva da fare i conti con la fame, i topi e i pidocchi, le infezioni e le malattie, le bombarde che sparavano dove capitava. E poi le polmoniti provocate dal freddo, le ulcere intestinali e, da ultimo, su corpi già debilitati, l’epidemia di Spagnola, che provocò mezzo milione di vittime, senza badare se militari o civili. Il restyling oggi in cantiere aggiunge dettagli per invitare a guardare «anche dall’altra parte».
La verità è sempre più complessa e articolata di come appare. Serve uno sforzo per immedesimarsi anche nelle ragioni della controparte e, senza bisogno di accettarle, impegnarsi per comprenderle. Perciò: accanto a una divisa italiana ce n’è una austriaca. L’arma di un esercito va affiancata con un’analoga nemica. E le immagini che ritraggono le facce tumefatte dal dolore della gente «di qua» vanno messe a confronto con le espressioni pietrificate dalla fatica delle popolazioni che stavano «di là». Riconoscimento appropriato per una Gorizia a cui, in gemellaggio con il pezzo «diviso» di Nova Goricia, viene attribuito il ruolo di «Città europea della cultura per il 2025».