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Walter Benjamin, l’ultimo viaggio del filosofo errante



È stata una vita inquieta, ricca di nuove idee e colpi di scena, quella di Walter Benjamin. Una biografia-racconto di questo vero maestro del Novecento ne ripercorre il cammino. Fino all’incredibile epilogo nel mondo in guerra..

C’è un uomo disperato che fugge, arrampicandosi con fatica sui Pirenei per cercare la salvezza. È un fantasma con la valigia ma senza documenti, inseguito dagli stivaloni della Gestapo. È un ebreo tedesco, intellettuale, filosofo, marxista a modo suo: identikit della preda perfetta nella tempesta d’acciaio del settembre 1940. Ha in tasca un visto per gli Stati Uniti e un lasciapassare per attraversare Spagna e Portogallo, ma nulla che l’autorizzi a uscire dalla Francia occupata. «Ci spiace, domani verrà rimandato indietro», gli dicono alla gendarmeria di Port-Bou, villaggio alla frontiera di due mondi. Indietro significa fra le braccia dei nazisti. Lui è stremato e senza speranza: si suicida nella notte in un’anonima stanza d’albergo inghiottendo una dose letale di pillole di morfina. Ha 48 anni. La mattina dopo, invece degli «stivaloni», arriva il via libera per espatriare. È l’ennesima beffa della sorte.

C’è il ruggito del romanzo nella fine di Walter Benjamin, il filosofo inafferrabile, l’intellettuale «raffinatissimo e poliedrico» dell’Angelus Novus, anticipatore di idee e di sussulti rivoluzionari nella «stagione del ferro e del fuoco, dagli inizi del Secolo breve fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale». C’è il ruggito del romanzo che diventa film nel libro di Paolo Pagani In cammino con Walter Benjamin. Il naufragio di un genio e le idee della sua epoca, pubblicato da Neri Pozza, un itinerario di 320 pagine dentro tanti mondi. Dentro l’Europa percorsa dai fremiti dei totalitarismi; dentro le élites intellettuali di Berlino, Parigi, Mosca, Lugano, perfino Capri, luoghi dove artisti, geni, pensatori e flâneur alla Baudelaire (Ernst Bloch, Theodor W. Adorno, Bertolt Brecht, Hannah Arendt, Joseph Roth, Hermann Hesse, mica «seconde file») strutturavano e destrutturavano i pensieri che avrebbero dominato la modernità. Un viaggio infine dentro l’anima, la testa e le viscere di un uomo in fuga innanzitutto da se stesso, in cerca di risposte impossibili, impegnato a ricomporre il puzzle di una vita dalle mille sfaccettature. E talvolta immaginato, con un lampo di Arbasino, come il «pellegrino alla fermata del bus, che ha perso gli amici e la corriera». Nel volume di valore ci sono tutti i Benjamin. C’è quello che aveva entusiasmato la generazione del Sessantotto (la fantasia al potere) e quello che negli anni 80 aveva fatto dire viscere di un uomo in fuga innanzitutto da se stesso, in cerca di risposte impossibili, impegnato a ricomporre il puzzle di una vita dalle mille sfaccettature. in cerca di risposte impossibili, impegnato a ricomporre il puzzle di una vita dalle mille sfaccettature. E talvolta immaginato, con un lampo di Arbasino, come il «pellegrino alla fermata del bus, che ha perso gli amici e la corriera». Nel volume di valore ci sono tutti i Benjamin. C’è quello che aveva entusiasmato la generazione del Sessantotto (la fantasia al potere) e quello che negli anni Ottanta aveva fatto dire al germanista Cesare Cases: «Va bene per tutti, per i ricamatori di elzeviri e i distillatori di aforismi. L’essenziale è che in lui va bene tutto, il grasso e il magro, e che lui va bene per tutti, i grassi e i magri». Questo per sancire che nelle sue pagine non si indulge e non si deifica, perché l’autore declina nel modo migliore l’insegnamento di Dino Buzzati: «Racconta, non fare il furbo».

Poi c’è lo stile di Paolo Pagani, capace di braccare i grandi della filosofia moderna fin sull’uscio di casa con stile giornalistico. Suona il campanello, si fa aprire e li induce a svelare i loro segreti davanti a un caffè lungo. Lo fece con I luoghi del pensiero, poi con Nietzsche on the road» e con Citofonare Hegel. Il Benjamin non sfugge alla tattica da tenente Colombo, sempre accattivante, sempre malizioso. «Qualcuno ha scritto che leggere Infanzia berlinese e Strada a senso unico equivale a provare un’esperienza sensoriale, tanto è sontuosa la prosa di Benjamin» spiega Pagani. «Un fascino che resiste, una storia che andava raccontata benché si tratti, alla fine, della vicenda di un perdente, di un uomo sconfitto dagli eventi. O magari proprio per questo».

Il figlio di un ricco antiquario berlinese è iper moderno, la sua rivalutazione arriva con i tempi giusti in un’Europa che oggi vorrebbe guardare oltre la tecnocratica burocrazia monetaria. Così Benjamin descrive quella bolscevica durante il soggiorno a Mosca: «Cupi burocrati alloggiati fra i loro paragrafi come volpi astute». Ama il continente antico e lo percorre in lungo e in largo, ne intuisce le tragedie, lo innerva di idee e di provocazioni, accompagnato dall’Angelus Novus di Paul Klee, l’acquerello di 32 centimetri per 24 comprato a Monaco nel 1921 e appeso nelle sue innumerevoli case (18 traslochi, forse di più), alberghi, stanze in affitto, tuguri da viaggiatore con qualche problema a sbarcare il lunario. Così irrequieto e così infelice, così insaziabile di esistenza e di donne (si invaghiva facilmente). Con il cruccio inespresso di non riuscire a diventare l’unica cosa che vorrebbe essere: un professore universitario vestito della «lustra armatura» del prestigio borghese. Dicevamo che Benjamin è ipermoderno. Sottolinea Pagani: «Anche in ciò forse è paragonabile al solo Nietzsche, il quale però non fece in tempo a vivere gli orrori del Novecento, non sperimentò i totalitarismi. Come Nietzsche, anche Walter denuncia il falso mito illuministico del progresso, irride certe filosofie fiduciose della irreversibile marcia della Storia verso il bene. Ma più dell’autore dello Zarathustra, Benjamin ci è vicino perché l’oggetto della sua curiosità da speleologo della vita di ogni giorno è la nostra società, quella delle merci, della reificazione della tecnologia. È la società massificata, siamo noi, è l’eterno nuovo che avanza e impoverisce l’autenticità dell’esperienza». Curioso di tutto e impegnato a spremere qualche tallero da tutto per evitare «la minaccia della fame» (il padre ha da tempo chiuso i rubinetti), punta il cervello verso una costellazione di temi in apparenza inconciliabili e diventa uno sperimentatore di futuro: il messianismo teologico, i giocattoli, i gialli, la critica letteraria, l’arte, il dramma barocco tedesco, il giornalismo culturale, la fotografia, i nuovi media, il collezionismo. E perché no, i trip allucinogeni come Hesse. Quando si innamora della radio inventa un programma per bambini e si trasforma in prototipo per tutti i conduttori di trasmissioni culturali nei decenni a venire. Così lo immagina Pagani: «Ingobbito al microfono, le cuffie calzate fra i riccioli bradi e folti, l’eterna sigaretta in una mano che intanto gesticola, mentre lancia ogni puntata in quel modo personalissimo che sottintende la perfetta comprensione di un medium inedito».

Accostato ad Antonio Gramsci ma anche a Ezra Pound - perché hanno lottato contro il loro tempo su fronti differenti - Benjamin non smette di fuggire, accompagnato da una filosofia che «esprime il suo disperato sforzo di evadere dalla prigione del conformismo culturale» (Adorno). Non si accorge che tutti hanno un piano B tranne lui; che molti (purtroppo non tutti) troveranno rifugio in America, tranne lui. Eppure la tempesta è arrivata, Brecht si fa costruire una casa con quattro porte, una per ogni lato, «così sarà più facile scappare». Invece Benjamin si perde nel groviglio delle idee e va avanti con il passo del bighellonatore di professione. Per carattere è un bradipo, non sopporta la fretta, anzi teorizza l’elogio della lentezza e scrive: «Quando viaggio, mi viene a mancare il piacere maggiore se non posso attendere a lungo il treno in stazione». Avesse aspettato anche l’ultima alba... Alla fine si ritrova con il fiato corto sul tratturo dei contrabbandieri dove i Pirenei diventano spagnoli, e con l’omino con la gobba sulle spalle. Così la madre frau Pauline definiva la iella, il folletto immaginario che fin da bambino accompagnava quel figlio maldestro. Ha detto Hannah Arendt: «La sfortuna gli si era incollata sulla pelle». Soprattutto la sera del 26 settembre 1940 a Port-Bou. Il giorno dopo sarebbe stato libero. E invece l’avidissimo albergatore detrasse dagli scarsi averi di Benjamin (in deposito) anche il costo delle gazzose bevute per inghiottire le compresse letali.

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