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Alzheimer: la speranza arriva dagli anticorpi



Sia per questa malattia degenerativa sia per il Parkinson, entrambe sempre più diffuse causa allungamento della vita, le ricerche esplorano nuovi campi. Panorama ne ha parlato con il professor Michele Vendruscolo, protagonista nella sperimentazione di terapie molto promettenti. «Una cura è solo questione di tempo, ci vorranno pazienza e impegno ma ci arriveremo».

Le origini di malattie neurodegenerative come l’Alzheimer e il Parkinson sono state per lungo tempo avvolte nel mistero. Da qui le difficoltà di contrastarle con terapie adeguate, capaci di alleviare le sofferenze dei pazienti e dei loro cari. Michele Vendruscolo, professore di biofisica all’Università di Cambridge, è tra i massimi esperti al mondo delle origini molecolari di queste patologie e nel suo laboratorio si studiano le cure oggi più avanzate.

Cinquantasette anni, laureato in fisica a Trieste, un dottorato alla Sissa (Scuola internazionale superiore di studi avanzati) di Trieste, Vendruscolo ha lavorato al Weizmann Institute in Israele e all’Università di Oxford prima di trasferirsi a Cambridge. Al centro delle sue ricerche vi sono le alterazioni nelle strutture delle proteine delle malattie neurodegenerative, analizzate però con un approccio multidisciplinare: fisica, chimica, genetica e medicina, come pure l’Intelligenza artificiale, vengono combinate nel tentativo di trovare farmaci che possano prevenire, ritardare o curare.

Il professore interverrà a Sci 2024, il congresso nazionale della Società chimica italiana organizzata al centro congressi Allianz MiCo di Milano dal 26 al 30 agosto, che vedrà la partecipazione di grandi scienziati internazionali. In questa intervista spiega come per Alzheimer e Parkinson, nonostante le difficoltà, stiano emergendo speranze e opportunità.

Professore, nel suo laboratorio studiate il fenomeno del «misfolding proteico», ossia il ripiegamento anomalo delle proteine. In cosa consiste e perché è così importante?

Nel nostro corpo moltissime funzioni biologiche vengono svolte dalle proteine: molecole a forma di catena che, per funzionare correttamente, devono ripiegarsi e assumere una forma precisa. Può accadere che questo processo non avvenga correttamente e una proteina si pieghi in maniera anomala. Per contrastare tale fenomeno, il nostro organismo possiede meccanismi di controllo capaci di rimuovere le proteine anomale, che potremmo definire «proteine-spazzatura». Ma quando invecchiamo questi meccanismi di rimozione funzionano meno bene e le proteine-spazzatura si accumulano.

E si formano le cosiddette placche amiloidi...

Esattamente. E la presenza di queste placche è associata a vari tipi di declino cognitivo tra cui Alzheimer e Parkinson. Intendiamoci, perché le placche si formino ci vogliono decenni di accumulo. Ma siccome l’età media è cresciuta, ecco che sono cresciuti anche i pazienti. Oltre i 60, ogni cinque anni di età il rischio di sviluppare queste malattie raddoppia, e dopo gli 80 anni a soffrirne sono circa un terzo degli anziani.

Ogni malattia neurodegenerativa è causata da un tipo di «misfolding» proteico?

Io lo spiegherei così. Immagini diverse metropoli in cui la nettezza urbana non funziona bene e i rifiuti non vengono mai rimossi del tutto. In una città gli operatori potrebbero lasciare un po’ di plastica, in altre di carta, e a lungo andare tutto ciò si accumula inesorabilmente. Bene, con le malattie neurodegenerative accade qualcosa di simile. Nel caso della «città Alzheimer», ad accumularsi sono rifiuti chiamati peptidi Abeta, nella «città Parkinson», rifiuti definiti alfa-sinucleina, nella SLA «spazzatura» detta TDP-43 e così via.

Quindi l’obiettivo della ricerca è sviluppare farmaci specifici contro questi accumuli.

Certo. A seconda della malattia degenerativa saranno diverse le proteine anomale da rimuovere, diverse le regioni del cervello incriminate e diversi i sintomi dei pazienti.

A che punto siamo nello sviluppo di queste molecole?

Risponderei facendo un paragone con la storia delle cure contro il cancro. Negli anni Settanta una diagnosi di tumore era come una condanna a morte. Poi sono stati sviluppati i primi farmaci che erano sì relativamente poco efficaci, ma rallentavano la progressione della malattia. Infine, man mano che sono stati compresi meglio i meccanismi cellulari, le terapie sono diventate sempre più efficaci al punto da rendere molti tipi di cancro malattie croniche, non fatali nel breve termine.

E nel caso delle malattie neurodegenerative?

Fino a pochi anni fa non ne conoscevamo a sufficienza le cause e sviluppare nuovi medicinali era impossibile. Ma ora che abbiamo capito che sono causate dall’accumulo di proteine anomale - la teoria amiloide - stanno uscendo i primi farmaci, sebbene siano capaci solo di rallentare la malattia e non di sconfiggerla.

A quali si riferisce?

Penso a farmaci contro l’Alzheimer come l’aducanumab o come lo stesso donanemab che è sotto sperimentazione e sarà approvato da varie agenzie a breve. Sono tutti anticorpi monoclonali che sembrano rallentare il decorso della malattia.

Ma non la sconfiggono del tutto, giusto?

Il problema degli anticorpi monoclonali, al cui sviluppo ha contribuito in piccola parte anche il nostro laboratorio, è che tendono a provocare effetti collaterali, a volte seri. Bisogna tenere presente, a questo proposito, che normalmente gli anticorpi non possono passare la barriera ematoencefalica e raggiungere i neuroni. Invece questi farmaci sono somministrati in modo da permetterne la penetrazione nel cervello, ma a costo di conseguenze indesiderate.

Quindi evitare questi effetti collaterali è il punto chiave delle sue ricerche?

Sì, stiamo cercando di costruire piccole molecole in grado di penetrare la barriera ematoencefalica e rimuovere gli accumuli proteici senza provocare troppi danni. Penso che saranno i farmaci del futuro, capaci di bloccare totalmente l’evolversi della malattia.

Quanto tempo ci vorrà?

Per quelli iniziali, dai cinque ai dieci anni, anche se probabilmente non saranno del tutto efficaci. Il mio ottimismo deriva dal fatto che nella ricerca siamo di fronte a un cambiamento epocale grazie all’Intelligenza artificiale: questa ci permette di sostituire esami sperimentali, che richiedevano anni di studi e milioni di euro di costi, con test al computer, che richiedono ore e qualche migliaia di euro.

Tutto ciò vale anche per il Parkinson?

Sì, con la differenza che in questo caso i farmaci non solo devono passare la barriera ematoencefalica ma anche la membrana cellulare per penetrare nella cellula. Sono sostanzialmente molecole contro i corpi di Lewy, cioè contro i depositi di Alfa-sinucleina. Anche qui sono allo studio piccole molecole molto promettenti. È solo una questione di tempo, ci vorranno pazienza e impegno ma ci arriveremo.

Di recente la rivista Jama Neurology ha pubblicato uno studio secondo cui un test del sangue sarebbe in grado di diagnosticare l’Alzheimer con 15 anni di anticipo. Cosa ne pensa?

Il test misura i livelli della proteina P-tau217, un biomarcatore che segnala la presenza della malattia almeno 15 anni prima dell’insorgenza di sintomi, come perdita di memoria e declino cognitivo. Sono sviluppi importanti: se so in anticipo che in un paziente si stanno accumulando certe proteine anomale, posso indirizzarlo meglio al tipo di test clinici necessari per individuare il farmaco adatto. Non solo. Per sviluppare medicine sempre migliori, è fondamentale poterne monitorare l’efficacia misurando biomarcatori.

E come considera le recenti scoperte sul genoma, per esempio che basta una copia della mutazione del gene APOE3 per ritardare l’esordio dell’Alzheimer di cinque anni?

Se c’è un difetto in questo gene, il rischio di Alzheimer cresce. Viceversa, se è presente una variante genetica più efficace, proprio come APOE3, il pericolo diminuisce. Questa notizia conferma l’ipotesi amiloide e apre alla possibilità di un test genetico che dica chi è a rischio e chi no.

Visto il suo ottimismo, che consiglio darebbe a una persona che ha un familiare con una malattia neurodegenerativa?

Quello di tenersi informato sulle scoperte piu recenti leggendo articoli divulgativi. Essere in una casa di cura e assumere terapie sintomatiche probabilmente non apre grandi speranze, ma entrare a far parte di una sperimentazione clinica sì. È quindi fondamentale sapere che si stanno programmando test per nuovi farmaci e cercare di farne parte.

Una recente sentenza della corte d’appello di Milano stabilisce che i costi dell’Rsa per i malati di Alzheimer vanno imputati al sistema sanitario e non alle famiglie. Lei, che ha vissuto in diversi Paesi, crede che lo Stato dovrebbe farsi carico di questi pazienti?

Una cosa è sicura: le malattie neurodegenerative sono un problema dell’intera società. Oggi dobbiamo avere chiaro in mente che l’età media si allunga e la probabilità di ammalarsi di demenza è alta, circa un terzo oltre gli 80 anni. Siccome queste patologie coinvolgono totalmente chi deve stare vicino ai malati, la maggior parte delle famiglie prima o poi deve affrontare questo problema. Che dunque riguarda tutti. E i politici dovrebbero prendere una decisione, non solo se farsi carico dei costi delle cure, ma anche se investire nella ricerca per sviluppare strumenti migliori di prevenzione.

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