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John Huston. L’arte del vivere con ardore



Dalle partite a tennis con Charlie Chaplin all’amicizia con Orson Welles, agli aneddoti sui suoi film che hanno fatto la storia. Esce la nuova edizione di Un libro aperto, autobiografia del grande regista americano che conobbe mille mondi. Sempre con passione.

Ed eccoci qua, per quel che è valso. Naturalmente non ho raccontato tutto. Ho evitato di rivelare qualche piega oscura della mia vita segreta. I miei misfatti non sono sufficientemente ignominiosi da dover essere ostentati. Sono insignificanti. Terribilmente insignificanti. Allo stesso modo, non ho raccontato alcune delle cose più dignitose che ho fatto. Anche queste mancano di vera nobiltà e grandezza. Ci sono state volte in cui ho confuso le due liste: mi vergognavo al ricordo di una buona azione e mi inorgoglivo al ricordo di una cattiva».

Si può essere più sinceri di così? Forse no. Diamo dunque merito a John Huston, gigante del cinema (fu attore, regista, sceneggiatore, scrittore) e della vita spesa senza risparmio (cinque mogli, cinque figli, un’infinità di avventure, molti cavalli), che così confessa nell’autobiografia pubblicata la prima volta nel 1980, ora in una nuova edizione per La nave di Teseo.

Il volume, 640 pagine da leggere d’un fiato, si intitola Un libro aperto. Lo è. Non solo sulle tappe di una vita intensa, consumata dal 1906 al 1987, ma su un mondo sempre ricco di sorprese: il cinema, Hollywood, i suoi protagonisti (cialtroni compresi), le invidie, i sogni, le bugie, i successi.

Huston licenziò il libro prima dei grandi film della vecchiaia, titoli quali Sotto il vulcano, L’onore dei Prizzi - con la figlia Anjelica che prese l’Oscar come miglior attrice non protagonista - The Dead - Gente di Dublino. Ma ci sono tutti i precedenti, film di grande potenza, a volte discontinui, con una cifra stilistica che i critici più generosi vi ravvisavano, Huston no.

Film come Il tesoro della Sierra Madre, del 1948, che fruttò ben tre Oscar: al regista Huston, a suo padre Walter (miglior attore non protagonista: era il vecchio cercatore d’oro), alla sceneggiatura (sempre di Huston). Titoli come Il mistero del falco, Agguato ai Tropici, La regina d’Africa, Moulin Rouge, dal 1941 al 1952 scaldarono i botteghini: la firma di John Huston era una sicurezza.

Successi planetari quali La Bibbia, del 1966, produzione Dino De Laurentiis e cast stellare. Huston ne fu regista e si riservò la parte di Noè, benché avesse appena 60 anni. Pellicole come Gli spostati, del 1960, con Clark Gable, l’ultimo film interpretato da Marilyn Monroe, diva fragile che esordì in un ruolo minore proprio con regia di Huston, in Giungla d’asfalto del 1950.

Poi Moby Dick, la balena bianca, del 1956, con Gregory Peck capitano Achab, ma c’era pure Orson Welles, in una parte minore. Il set ebbe una lunga serie di disavventure, con gigantesche balene (di gomma) perse in mare e tragedie sfiorate. «È stato il film più difficile che abbia mai fatto. Dio aveva ottimi motivi per scagliarci contro quei terribili venti e quelle ondate» ricorda Huston nelle pagine dedicate a una lavorazione che mise in luce pure il divario tra il regista e Peck, offeso - pare - per non essere stato la prima scelta.

Libri come questo - la traduzione è quella della prima edizione, di Paola Chiesa; la cura e l’illuminata postfazione sono di Alberto Pezzotta, autorità della critica e storia del cinema - vanno domati come fossero cavalli selvaggi. Ci portano dove gli pare, ma con un tiro di briglie si quietano, per poi riprendere il folle galoppo. Importante è non farsi disarcionare, perché ogni pagina - ora usciamo di metafora - è godibile.

Si può aprire a caso, certi di entrare subito in storie belle come i più bei film di Huston, che era spinto da vorace curiosità e respirava la cultura dello spettacolo fin da ragazzo. Nato nel Missouri da un attore canadese dilettante, nei teatri di provincia, e da una giornalista di testate locali, crebbe gracilino, con sospetta grave malattia ai reni che si rivelò priva di fondamento.

Intorno ai dieci anni, ormai trasferito con mamma a Los Angeles, John stette un’ora da solo con Charlie Chaplin, speciale baby sitter che lo fece divertire con battute e giochi di prestigio. Huston ne scrive nel libro, notando che anni dopo Chaplin gli sembrò imbarazzato, quando lui gli ricordò quell’antica visita a un bambino malaticcio. Non ne parlarono più, nonostante Huston e Charlot si fossero poi frequentati a lungo, disputando persino furiose partite di tennis.

Altra amicizia che occupa pagine fu quella con Orson Welles, collega al quale Huston somigliava. Giustamente Pezzotta scrive: «Oltre che un aspirante Hemingway, Huston è stato una specie di fratello, di emulo e di seguace di Orson Welles». Huston lavorò molto, sempre con generosità. Ammirava i registi dei film d’autore, i venerati Bergman, Fellini, Buñuel, ma subito si schermiva, nel caso qualcuno volesse infilarlo nel prestigioso mazzo. «Sono un eclettico. Mi piace attingere a fonti diverse da me stesso», scrive. E poche righe dopo: «L’idea di dedicarmi a una sola attività nella vita per me è impensabile. La boxe, la scrittura, la pittura, i cavalli, in alcuni periodi della mia vita sono stati importanti né più né meno che la regia dei film».

Prima di tutto, sembra dire, bisogna vivere, viaggiare, amare, fumare sigari Avana grossi come quelli di Orson, spendere, scommettere, poi se c’è tempo per i set, per dirigere attori o farlo, l’attore, come no, John Huston c’è.

Il cinema degli anni d’oro ha in Huston una sorta di riassunto, il racconto popolare che ogni film in fondo trova in lui un Maestro. Non importa se la critica non sempre la pensa così. Alberto Pezzotta, nella postfazione, ci regala un saggio condensato sull’accoglienza critica di Huston, amato in Francia fin da tempi non sospetti e persino in Italia, dove nel 1950 il temuto e ideologico Guido Aristarco scrisse un articolo sull’anticonformismo del regista americano.

Huston ebbe a che fare con la dura censura maccartista, ma trovò sempre il modo di sfuggire alla mannaia e inserire nei suoi film, con jucio, elementi dissacranti e libertari.

Scrive Pezzotta, e concordiamo: «Anche nei film meno difendibili di Huston spesso c’è un guizzo, un lampo di genio: qualcosa che sfugge alle ragioni dell’economia e alle richieste dei committenti, qualcosa a cui Huston non è obbligato per contratto, ma che lui, irresistibilmente, non può non fare, come per prendersi una rivincita».d eccoci qua, per quel che è valso. Naturalmente non ho raccontato tutto. Ho evitato di rivelare qualche piega oscura della mia vita segreta. I miei misfatti non sono sufficientemente ignominiosi da dover essere ostentati. Sono insignificanti. Terribilmente insignificanti. Allo stesso modo, non ho raccontato alcune delle cose più dignitose che ho fatto. Anche queste mancano di vera nobiltà e grandezza. Ci sono state volte in cui ho confuso le due liste: mi vergognavo al ricordo di una buona azione e mi inorgoglivo al ricordo di una cattiva».

Si può essere più sinceri di così? Forse no. Diamo dunque merito a John Huston, gigante del cinema (fu attore, regista, sceneggiatore, scrittore) e della vita spesa senza risparmio (cinque mogli, cinque figli, un’infinità di avventure, molti cavalli), che così confessa nell’autobiografia pubblicata la prima volta nel 1980, ora in una nuova edizione per La nave di Teseo.

Il volume, 640 pagine da leggere d’un fiato, si intitola Un libro aperto. Lo è. Non solo sulle tappe di una vita intensa, consumata dal 1906 al 1987, ma su un mondo sempre ricco di sorprese: il cinema, Hollywood, i suoi protagonisti (cialtroni compresi), le invidie, i sogni, le bugie, i successi.

Huston licenziò il libro prima dei grandi film della vecchiaia, titoli quali Sotto il vulcano, L’onore dei Prizzi - con la figlia Anjelica che prese l’Oscar come miglior attrice non protagonista - The Dead - Gente di Dublino. Ma ci sono tutti i precedenti, film di grande potenza, a volte discontinui, con una cifra stilistica che i critici più generosi vi ravvisavano, Huston no.

Film come Il tesoro della Sierra Madre, del 1948, che fruttò ben tre Oscar: al regista Huston, a suo padre Walter (miglior attore non protagonista: era il vecchio cercatore d’oro), alla sceneggiatura (sempre di Huston). Titoli come Il mistero del falco, Agguato ai Tropici, La regina d’Africa, Moulin Rouge, dal 1941 al 1952 scaldarono i botteghini: la firma di John Huston era una sicurezza.

Successi planetari quali La Bibbia, del 1966, produzione Dino De Laurentiis e cast stellare. Huston ne fu regista e si riservò la parte di Noè, benché avesse appena 60 anni. Pellicole come Gli spostati, del 1960, con Clark Gable, l’ultimo film interpretato da Marilyn Monroe, diva fragile che esordì in un ruolo minore proprio con regia di Huston, in Giungla d’asfalto del 1950.

Poi Moby Dick, la balena bianca, del 1956, con Gregory Peck capitano Achab, ma c’era pure Orson Welles, in una parte minore. Il set ebbe una lunga serie di disavventure, con gigantesche balene (di gomma) perse in mare e tragedie sfiorate. «È stato il film più difficile che abbia mai fatto. Dio aveva ottimi motivi per scagliarci contro quei terribili venti e quelle ondate» ricorda Huston nelle pagine dedicate a una lavorazione che mise in luce pure il divario tra il regista e Peck, offeso - pare - per non essere stato la prima scelta.

Libri come questo - la traduzione è quella della prima edizione, di Paola Chiesa; la cura e l’illuminata postfazione sono di Alberto Pezzotta, autorità della critica e storia del cinema - vanno domati come fossero cavalli selvaggi. Ci portano dove gli pare, ma con un tiro di briglie si quietano, per poi riprendere il folle galoppo. Importante è non farsi disarcionare, perché ogni pagina - ora usciamo di metafora - è godibile.

Si può aprire a caso, certi di entrare subito in storie belle come i più bei film di Huston, che era spinto da vorace curiosità e respirava la cultura dello spettacolo fin da ragazzo. Nato nel Missouri da un attore canadese dilettante, nei teatri di provincia, e da una giornalista di testate locali, crebbe gracilino, con sospetta grave malattia ai reni che si rivelò priva di fondamento.

Intorno ai dieci anni, ormai trasferito con mamma a Los Angeles, John stette un’ora da solo con Charlie Chaplin, speciale baby sitter che lo fece divertire con battute e giochi di prestigio. Huston ne scrive nel libro, notando che anni dopo Chaplin gli sembrò imbarazzato, quando lui gli ricordò quell’antica visita a un bambino malaticcio. Non ne parlarono più, nonostante Huston e Charlot si fossero poi frequentati a lungo, disputando persino furiose partite di tennis.

Altra amicizia che occupa pagine fu quella con Orson Welles, collega al quale Huston somigliava. Giustamente Pezzotta scrive: «Oltre che un aspirante Hemingway, Huston è stato una specie di fratello, di emulo e di seguace di Orson Welles». Huston lavorò molto, sempre con generosità. Ammirava i registi dei film d’autore, i venerati Bergman, Fellini, Buñuel, ma subito si schermiva, nel caso qualcuno volesse infilarlo nel prestigioso mazzo. «Sono un eclettico. Mi piace attingere a fonti diverse da me stesso», scrive. E poche righe dopo: «L’idea di dedicarmi a una sola attività nella vita per me è impensabile. La boxe, la scrittura, la pittura, i cavalli, in alcuni periodi della mia vita sono stati importanti né più né meno che la regia dei film».

Prima di tutto, sembra dire, bisogna vivere, viaggiare, amare, fumare sigari Avana grossi come quelli di Orson, spendere, scommettere, poi se c’è tempo per i set, per dirigere attori o farlo, l’attore, come no, John Huston c’è.

Il cinema degli anni d’oro ha in Huston una sorta di riassunto, il racconto popolare che ogni film in fondo trova in lui un Maestro. Non importa se la critica non sempre la pensa così. Alberto Pezzotta, nella postfazione, ci regala un saggio condensato sull’accoglienza critica di Huston, amato in Francia fin da tempi non sospetti e persino in Italia, dove nel 1950 il temuto e ideologico Guido Aristarco scrisse un articolo sull’anticonformismo del regista americano.

Huston ebbe a che fare con la dura censura maccartista, ma trovò sempre il modo di sfuggire alla mannaia e inserire nei suoi film, con jucio, elementi dissacranti e libertari.

Scrive Pezzotta, e concordiamo: «Anche nei film meno difendibili di Huston spesso c’è un guizzo, un lampo di genio: qualcosa che sfugge alle ragioni dell’economia e alle richieste dei committenti, qualcosa a cui Huston non è obbligato per contratto, ma che lui, irresistibilmente, non può non fare, come per prendersi una rivincita».

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