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La Cina ci fa pagare dazio

La Ue, dopo anni di immobilismo, ha deciso di imporre una tassa sui veicoli green provenienti dal Dragone. Una mossa estrema, ma forse tardiva, dato che Pechino in un ventennio è diventata la regina del commercio mondiale. Grazie agli Stati Uniti che ne hanno agevolato l’ingresso al Wto.


Mettiamola così; l’Unione europea ha chiuso il garage quando i ladri d’auto erano già scappati. E ora comincia una guerra commerciale in cui è quasi sicuro che a vincere sarà Pechino. La ragione? Come nel 2001 quando la Cina, dopo una trattativa durata 15 anni, fu accolta nel Wto – l’Organizzazione mondiale del commercio - abbiamo fatto male i conti. George W. Bush aveva subìto la ferita durissima delle Twin Towers, dopo l’11 settembre c’era bisogno di un evento epocale.

Bush tre mesi dopo la strage di New York annunciò al mondo che l’intesa con la Cina era fatta. Esattamente l’11 dicembre Pechino entrava nel novero dei Paesi a libero scambio, impegnandosi a rispettare le regole dell’economia di mercato. Cosa che non ha mai fatto in 23 anni. Il disegno statunitense era chiaro: costruire la «Chimerica» (China+America), consentendo ai cinesi di svilupparsi come fabbrica del mondo e agli americani di guadagnare come commercianti e finanziatori dei prodotti cinesi non disdegnando che Pechino finanziasse indirettamente lo zio Sam comprandone il debito. A tutt’oggi Pechino ha il 6 per cento dei bond americani per un controvalore di circa 1.100 miliardi di dollari ed è dopo il Giappone il secondo detentore estero.

Il vero fautore dell’ingresso accelerato della Cina nel Wto però è stato Romano Prodi, allora presidente della Commissione europea, che continuava a ripetere: «La Cina è una straordinaria opportunità». Ne era davvero convinto: i colloqui preparatori per l’adesione formale al Wto si tennero a cominciare dal gennaio del 2000 a Bruxelles quando Prodi imbastì la trattativa col primo ministro cinese, Zhu Rongji, e tra il commissario al commercio, Pascal Lamy, e il collega Shi Guangsheng.

L’errore maggiore? Non porre limiti ai prodotti che la Cina poteva esportare. Dieci anni dopo il presidente americano Barack Obama denunciò le pratiche sleali di Pechino. L’amministrazione democratica si mise a coltivare l’idea di passare da Chimerica al transpacifico. Costruire cioè un’area di libero scambio a Oriente escludendo la Cina. La risposta fu una denuncia di Pechino in sede di Wto contro tutto l’Occidente e l’inizio della costruzione del super-yuan in un mercato sostenuto dai Brics dove Pechino aveva la leadership e poteva coltivare il sogno cinese.

Quale? Basta rileggersi il discorso di Xi Jinping al diciottesimo congresso del Partito comunista – siamo nell’ottobre del 2017 – per sapere che Pechino punta costruire il nuovo ordine mondiale e che ha fissato al 2049, quando cade il centenario della nascita della Repubblica Popolare, due obbiettivi irrinunciabili: annettere Taiwan e diventare il Paese leader assoluto nella tecnologia superando gli Usa. Ce la faranno? Affacciandosi oggi a Hong Kong diventa evidente che è così e che Pechino non rispetta alcun patto. La ex colonia britannica tornata alla Cina nel ’97 doveva avere garanzia di mezzo secolo di totale autonomia.

Ventisette anni dopo è completamente cinesizzata. I ristoranti sono solo cinesi, il popolo parla solo cinese, si paga solo in renminbi, la struttura giuridico-sociale è totalmente allineata a quella di Pechino. Pur sapendo tutto questo l’Europa si è consegnata nelle mani di Xi Jinping inseguendo l’ideologia green. Un numero dice tutto: il deficit commerciale col Paese asiatico dell’Unione europea è pari a 291 miliardi, dopo aver toccato un record di 400 miliardi nel 2022.

Ursula von der Leyen nel dicembre scorso ha dovuto ammettere: «Bisogna diversificare le linee di approvvigionamento e affrontare le dipendenze eccessive». Più facile a dirsi che a farsi, soprattutto se il cancelliere tedesco Olaf Scholz, dal suo sprofondo elettorale, continua a contestare i dazi verso la Cina e si fa ricevere in pompa magna da Xi Jinping che è il suo primo partner commerciale. Più facile a dirsi che a farsi se i Paesi dell’Ue comprano dai cinesi il 22 per cento delle loro importazioni e sono il primo cliente di Pechino. Gli altri stanno a lunga distanza: Stati Uniti (13,7 per cento), Regno Unito (7,2per cento), Svizzera (5,5 per cento) e Norvegia (4,7 per cento). E resta il dato che il 97 per cento dell’export cinese è dentro i confini del Wto.

Ma improvvisamente a Bruxelles si sono svegliati e hanno deciso di imporre i dazi sulle auto elettriche che arrivano dall’Asia, con punte di tassazione aggiuntiva del 48,1 per cento. Ignorando però che la Germania - da Bmw con la Mini e la X3i, a Mercedes e ad Audi - produce le sue elettriche in Cina così come la Francia con la Dacia e la Spagna, sia pure nell’orbita Volkswagen, con la Cupra, dimenticandosi che i cinesi detengono marchi europei come Volvo, Lotus e Mg, facendo finta che non sia vero che Stellantis - in danno dell’Italia - produrrà in Polonia le utilitarie di Leapmotor destinate a distruggere il segmento B (le auto più a buon mercato).

L’Ue nel totale immobilismo della commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager – quella che ha fatto fallire le banche italiane sbagliando e che voleva impedire in ogni modo l’alleanza Ita-Lufthansa – si è semplicemente accodata a quanto hanno fatto negli Stati Uniti. Joe Biden quando gli hanno portato i dati secondo cui Pechino vende più macchine delle case americane ha quadruplicato - portandola al 100 per cento - la tassa sulle auto a pila importate dall’Asia. Ha anche innalzato al 25 per cento i dazi su tutto quanto attiene il green che arriva dalla Cina: dalle batterie ai pannelli fotovoltaici.

Ciò che l’Europa non ha avuto il coraggio di fare. Anzi col Green deal si è consegnata in mano ai cinesi, salvo ora pentirsene. Pechino ha reagito e ora davanti al Wto presieduto da Ngozi Okonjo-Iweala, economista nigeriana, vuole denunciare l’Europa mettendo dazi su tutti i prodotti agricoli e in particolare su vini, distillati, salumi e formaggi sostenendo che i contributi della Pac – la Politica agricola comunitaria – sono aiuti di Stato. Il rischio che l’Italia sia il Paese che più di tutti paga la guerra dei dazi è concreto. Ancorché in volume l’import cinese delle nostre eccellenze enogastronomiche non sia eccezionale – siamo intorno ai 600 milioni, il nostro export complessivo è pari a 13,5 miliardi trascinato soprattutto dai farmaceutici – è comunque un mercato in crescita a doppia cifra (14 per cento).

E che in sede di Wto non ci vada benissimo è testimoniato dal fatto che la Nigeria è oggi uno dei Paesi affiliati ai Brics e sui quali la Cina esercita una fortissima pressione politico-economica.

Perché la sfida ormai non si gioca più solo sui dazi, ma sulla scacchiera geopolitica. Non è un caso che l’Economist si sia chiesto, la settimana scorsa, se la Cina è pronta al sorpasso tecnologico sugli Stati Uniti. La risposta è: forse, ma entro il 2040 è sicuro. Sull’Intelligenza artificiale Pechino sta spingendo fortissimo, l’unico freno potrebbe essere la sua struttura dirigistica, ma i fondamentali dell’economia, al di là del debito interno e dei consumi in contrazione, sono tornati a brillare. Crescita del 5,3 per cento nei primi tre mesi dell’anno (quasi un punto più delle attese), export in ripresa di quasi due punti, produzione industriale in aumento del 6,1 per cento, investimenti in tecnologia saliti di oltre 9 punti.

E soprattutto la compiuta costruzione di un proprio mercato parallelo. Mentre il G7 a Savelletri s’ingegnava a studiare nuove sanzioni a Mosca e Pechino per via della guerra in Ucraina, a Nizhny Novgorod si sono riuniti i ministri degli Esteri dei Brics che hanno accolto l’Iran che si è aggiunto a Etiopia, Emirati Arabi, Arabia Saudita, Egitto oltre ai fondatori Brasile, Cina, Sudafrica, Russia e ovviamente Cina. Attorno ai Brics gravitano anche Algeria, Egitto, Sudan, Ghana, Nigeria, Kenya, Repubblica del Congo, Ruanda e Zambia. Ed è sui quei mercati - Cina e Russia hanno sviluppato anche un rapporto privilegiato con la Turchia che è un Paese della Nato - che Pechino conta per costruire la sua egemonia. E far pagare dazio all’Europa.

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