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Dopo il voto: quel che resta del Green Deal

Le elezioni europee hanno assestato un sonoro colpo alle forze che sostenevano gli ideologismi verdi. E ora, su molti temi, a partire da auto e abitazione, occorre un bagno di realtà da parte del prossimo esecutivo

Appena eletta, concionava come Greta Thunberg: «Vediamo Venezia sott’acqua, le foreste che bruciano in Portogallo, la siccità della Lituania. Non possiamo perdere neppure un secondo. Dobbiamo lottare contro il cambiamento climatico». Cinque anni dopo, Ursula von der Leyen sembra il Frank Underwood di House of Cards. Non ha cambiato idea, ci mancherebbe. Aggiorna solo «i parametri delle promesse». Così, la presidente della Commissione europea rimodula: «A differenza di altri, noi siamo per soluzioni pragmatiche e non ideologiche. Non c’è protezione del clima senza economia competitiva».

Alleluja. Anche se è servito quasi un lustro per rivedere l’insana declinazione ecofuribonda. Le ultime elezioni europee, del resto, ridimensionano i socialisti e annichiliscono i verdi: gli architetti del Green Deal in versione talebana. Obiettivi irrealistici, competitività azzoppata, risparmi estinti. Una calamità economica che, tardivamente, pure i popolari vogliono scongiurare. A partire dalla machiavellica baronessa tedesca. Sembra destinata a venir riconfermata, dopo aver fiutato il momento. Non è più tempo di carnevalate in compagnia dello spodestato sciamano verde, Frans Timmermans, fu commissario alla Transizione ecologica. Case, auto, imballaggi, agricoltura, emissioni. Meno intransigenza, maggior realismo. Non ripara gli errori passati, certo. Potrà evitarne altri, magari.

Anche i conservatori europei, guidati dalla premier italiana Giorgia Meloni, sarebbero pronti a votare Ursula. «Questo però è un equivoco di chi ragiona con le nostre logiche» spiega Nicola Procaccini, copresidente del gruppo Ecr. «Quel nome viene scelto dai governi. Il successivo passaggio in Parlamento non è un sostegno politico, ma una ratifica». Cinque anni fa anche il Pis, strettissimo alleato di Fratelli d’Italia, guidato dall’allora premier Mateusz Morawiecki, aveva sostenuto Von der Leyen. Scelta che non ha gli ha poi impedito di rimanere all’opposizione. Così gira il mondo a Bruxelles. In Europa le geometrie sono variabili. «Ogni votazione ha una maggioranza diversa» ricorda Procaccini. Difatti, proprio sul Green Deal, nell’ultimo anno conservatori e popolari hanno spesso concordato. «E poi, a differenza del 2019, la prossima commissione sarà di centro destra» aggiunge il copresidente dei conservatori europei. «I commissari vengono eletti dai governi. E quelli di sinistra ora sono in netta minoranza. Di conseguenza, il Parlamento europeo dovrà adeguarsi, ridimensionando la linea progressista». Pena stallo alla messicana. «Si partirà dal Green Deal. La gente ha votato contro il fanatismo. Adesso ci sarà un approccio pragmatico, che prevede anche più autonomia agli Stati e la fine della spoliazione di competenze».

A maggior ragione, vista la clamorosa débâcle del decantato asse franco-germanico. Emmanuel Macron, presidente transalpino, costretto a indire nuove elezioni. Olaf Scholz, primo ministro tedesco, in clamoroso affanno. In Germania si vota l’anno prossimo. E la Cdu deve marcare distanza dai socialisti, spostandosi a destra. Anche questo condiziona la loro posizione in Europa, dove sono la delegazione più numerosa e influente. Insomma, il momento è propizio. Bisogna scardinare il dogma assoluto. L’ultimo voto è stato eloquente. Come l’avvisaglia, in Olanda, lo scorso novembre. Timmermans, onnipotente guru green, sonoramente sconfitto dal leader della destra, Geert Wilders. Decisiva riprova di quanto fosse ormai impopolare la crociata verde foresta. Che adesso Ursula vuole trasformare, con l’appoggio dei conservatori, in color pisellino primavera.

Tutti vorremmo abbattere l’inquinamento e vivere in città lussureggianti, per carità. Ma non sarà il furore ideologico e tafazziano a salvare il pianeta. Bisognerà partire, intanto, dalla minaccia più prossima e universale: le case green. Dopo una folle corsa a perdifiato, l’Europa qualche mese fa ha già rivisto gli iperuranici traguardi iniziali. Restano gli obblighi: cappotto termico, nuovi infissi, riscaldamento efficiente. Spesa media: dai 40 ai 60 mila euro. Ogni Stato, spiega la nuova direttiva, si deve adoperare per ridurre il consumo energetico del 16 per cento entro il 2030 e almeno del 20 per cento entro il 2035. E l’imposizione di rottamare le caldaie a gas viene spostato al 2040. L’Italia, però, non ha ancora recepito le nuove regole. Dunque? Le ipotesi sembrano due. Riscrivere la norma o fissare come obiettivo unico il 2050. Il tragico memento rimane il Superbonus voluto da Giuseppe Conte, l’ex premier italiano: 220 miliardi serviti a ristrutturare appena il 4 per cento del patrimonio edilizio. Causando il più gigantesco e deleterio buco nella storia repubblicana.

L’assillo resta quello sintetizzato da Giancarlo Giorgetti, il ministro dell’Economia: «Chi paga?». È il dirimente interrogativo che si ripropone per l’auto elettrica. Lo stesso commissario al Mercato interno, Thierry Breton, finisce per ammettere: «Una quota significativa della popolazione europea non può permettersi di acquistarla». Aggiungendo: saranno distrutti «seicentomila posti di lavoro». Conta destinata a quadruplicarsi, stima un’indagine interna dell’Ue, vista l’invasione di veicoli cinesi a zero emissioni. Eppure dal 2035 non potranno essere vendute diesel e benzina. Ma è davvero ragionevole rottamare i motori tradizionali, spalancando il mercato al Dragone? Così l’ultimo atto dell’Ursula uno, perfetto lancio per l’agognato bis, diventa chiassoso ed emblematico. L’Ue vuole sostanziosi dazi sulle importazioni di elettriche, viste le sovvenzioni del governo di Pechino al settore. Alla buon’ora, si dirà. Mica tanto, invece: le vittime saranno soprattutto i consumatori, che dovranno comprare macchine più costose.

Intanto, rimane fissata la data della catastrofe. Il 2035 incombe. Nel 2026, però, scatterà un’enigmatica clausola di revisione. Che lo scorso dicembre Manfred Weber ha già annunciato di voler sfruttare: «Se avremo la maggioranza alle prossime elezioni, annulleremo il divieto ai motori a combustione approvato in questa legislatura» assicura il capogruppo dei popolari a Bruxelles. «Una decisione di sinistra e verdi con enormi svantaggi competitivi per l’Ue». Persino la corte dei conti europei, nell’ultimo studio appena pubblicato, sottolinea il problema della «sovranità industriale dell’Ue» e «l’eccessiva dipendenza» dalle importazioni, vedi le batterie cinesi. E c’è anche la scarsa quantità di punti di ricarica, che rende inafferrabile l’altro chimerico obiettivo del profeta Frans: un milione di colonnine entro il 2025.

Tanta solerzia si contrappone agli incomprensibili ritardi sui biocarburanti, estratti dagli oli vegetali, ancora esclusi dalle deroghe. Sono l’avanguardia dell’Eni, il nostro colosso energetico. Sarà il governo italiano a chiedere, nuovamente, di rimuovere il veto. Investire sui carburanti alternativi potrebbe diventare salvifico per il settore automobilistico europeo. E andrà ridefinito anche lo strombazzatissimo impegno generale: ridurre le emissioni del 55 per cento entro il 2030. «Scarsi segnali indicano che le azioni intraprese saranno sufficienti per raggiungere l’obiettivo» scrivono ancora gli esperti contabili lussemburghesi. Per non parlare dell’ancor più lunare traguardo delle zero emissioni, fissato per il 2050. Ecco, a proposito. Anche l’ultima conferenza dell’Onu a Dubai ha ingranato decisa retromarcia. Si sperava nel «phase out»: l’eliminazione di petrolio, gas e carbone. S’è arrivati al «transitioning away»: la progressiva fuoriuscita.

«Una pugnalata alle spalle» svelena Greta. Altro segno dei tempi, comunque. Cinque anni fa, a ridosso della scorsa tornata, i suoi Fridays for future furoreggiavano. Tanto da spingere i Verdi a risultati impensabili. In Germania, per esempio, superavano il 20 per cento. Nel 2024 i voti si dimezzano. Conseguentemente, il loro peso diventa residuale. Intanto gretini e soci, magari foraggiati dai capienti borsellini paterni, imbrattano opere d’arte e bloccano tangenziali. Riuscendo in un’impresa che sembrava ardita: farsi detestare persino dai più bendisposti. I giovani virgulti ambientalisti rimodulano così le loro battaglie. Greta, ormai ventunenne, molla l’ambiente per la causa palestinese. Eppure a marzo 2020, davanti agli scodinzolanti Ursula e Frans, veniva accolta nel Parlamento europeo come un’eroina. Adesso rischierebbe di venir respinta dagli eleganti uscieri in frac nero.

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