Un film sensibile e potente come risultano essere le opere d’arte con un’anima intensa che sanno come interagire con la vita di chi le osserva. È uno scambio emozionale, una condivisione viscerale di una umanità in conflitto, ma armata di benevolenza. Scendendo nel profondo de “Il tempo che ci vuole” di Francesca Comencini — pellicola fuori concorso a Venezia 81 e mercoledì 2 ottobre al Visionario di Udine (alle 19.15) e a Cinemazero di Pordenone (al termine della proiezione delle 21) accompagnata della regista — emerge con naturalezza il rapporto fra il padre Luigi e la figlia Francesca, un percorso preciso incentrato sull’attraversamento più impervio dell’adolescenza, ovvero quando ci si sente poco compatibili col mondo.
«Coltivavo il desiderio di raccontare questa fase di dialogo con lui — spiega Comencini — che mi aiutò a uscire da una stagione buia della mia infanzia. Standomi accanto, fondamentalmente, e usando gli strumenti più saggi: la durezza di certi atteggiamenti addolcita da un’espressione ricca di tenerezza».
«La gioventù contemporanea è fragile. Il nostro compito è di avere nei loro confronti uno sguardo non giudicante, cercando di promuovere un’idea di futuro. La nostra generazione dei Settanta ce l’aveva una speranza, nonostante vivesse un’Italia tormentata dalla guerriglia urbana e dal terrorismo. Ora fatichiamo a immaginarci certezze. Per questo non dobbiamo abbandonarli mai i nostri figli».
«Questa opzione è la quintessenza del progetto. Chi non si è mai inciampato durante qualunque giovane cammino? Non c’è alcunché da vergognarsi. Se poi ci si rialza è una prova di forza necessaria per crescere. Come cantava De Gregori: «Nelle pagine chiare e nelle pagine scure».
«In realtà il pensiero è di Samuel Beckett ed è la frase culto della storia. Parole che spiegano alla perfezione il motivo per cui il padre riesce a connettersi con la figlia. Con una semplice confessione: "Io alla tua età ero come te. Faticavo a sentirmi abbastanza per la società preso com’ero dal credermi poco o nulla”. Lei lo guarda e scatta il contatto, proprio quando non sembrava più esserci una possibilità di redenzione. Ricordiamoci che senza fallimento non c’è successo».
«Totale. Una cosa che mi irrita è la “non fiducia” di molti. Come si diceva, è difficile poter confidare oggi sull’ottimismo quando ragioniamo sul domani, ma se noi adulti non stiamo ad ascoltarli non ce la faranno mai».
«Speravo che Fabrizio accettasse e il suo sì mi rese felice. Romana l’ho scelta fra tante brave attrici dopo molti provini. Trovo sia dotata di un talento straordinario oltre a essere stata ben forgiata dalla scuola Volonté di Roma. La ritroveremo altrove».
«Sì e no. Serve a volte a fuggire dai tormenti esistenziali che il grande schermo esalta con la sua incredibile cassa di risonanza rispedendoceli indietro. “Ma questo l’ho provato anch’io!” C’è un trauma che riconosci come tuo e il cinema ti aiuta a superarlo».
«Una delle serie più amate nel mondo, meno che in Italia. Pensavo di non esserne capace, poi Cupellini e Sollima mi hanno detto vai. Esperienza pazzesca».
«La stessa di “Il tempo che ci vuole”: ho escluso il resto della famiglia a favore di un punto di vista diverso. Valutazioni radicali che possono sorprendere, lo capisco. A volte il cinema ti fa percepire anche il cosa non c’è oltre a cosa c’è».