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Ormezzano racconta le Olimpiadi: dalla corsa di Berruti alle bracciate di Fioravanti

Ad un certo punto della mia vicenda lavorativa (querelo chi la chiama carriera) mi sono scoperto, mi sono come inventato primatista mondiale di giornalismo olimpico, nel senso di Giochi estivi ed invernali seguiti per conto di un giornale quotidiano, Tuttosport e poi La Stampa, sempre con il settimanale Famiglia Cristiana ad ospitarmi come esperto&responsabile dello sport.

Ero a quota 25 fra Olimpiadi invernali ed estive. Il Cio, da me interpellato con cautela e calma appunto olimpica, attraverso amicizie importanti aveva confermato, sia pure e ufficiosissimamente. Erano i giorni di Torino, la mia città, con i suoi Giochi invernali 2006, avevo passato i 70, ho chiuso con quelli la militanza diciamo quotidiana e allora amen anzi requiem, ché il mio diciamo sussurrato primato deve essere stato battuto eccome.

Non ho agganci mnemonici o addirittura televisivi – il massimo – speciali riguardanti una qualche impresa sportiva olimpica superemozionante. Ex nuotatore agonistico bravino strabattuto da Bud Spencer, sapevo tutto di fatica, gloria, specialmente sconfitta. Seguivo le gare, e di esse scrivevo, con un allegro documentato distacco, che magari piaceva ai lettori. Ma soprattutto nel 1960 un evento olimpico mi aveva riempito e sinanco enfatizzato il fresco passato e intanto occupato già il futuro.

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Il mio compagno di scuola e superamico Livio Berruti, stesso liceo classico Emilio Benso Conte di Cavour a Torino, lui cinque anni meno di me, aveva vinto a Roma 1960 l’oro dei 200, e per me nulla poteva superare, anche in sede onirica, quella sua gara, quelle emozioni. E inoltre lo avevo portato da Roma a Torino, a Giochi finiti, sulla mia Fiat 600 comprata a rate, e il nostro viaggio in una Italia senza autostrade (solo i 50 km da Genova a Serravalle, fra Roma e Torino) era stato lento, bello, punteggiato di soste e feste in tanta Italia preavvisata. Quasi 24 ore, fra chi ci aspettava, quelli della polizia stradale che mi fermarono a Genova, semaforo rosso ignorato, inutile esibire il dormiente Berruti, fra l’altro tesserato nel gruppo sportivo della polizia, multa di lire 2300 e monito severo.

Ora vado per i 90, Livio ha problemi seri di deambulazione, accade che gli faccia da taxista, c’est la vie. La sua impresa romana resta per me, tutto compreso, il massimo dei massimi, lui lo sa, non ne parliamo mai, per me lui è politicamente l’applicazione del Voltaire che dice: «La penso all’opposto di te su molte cose, ma lotterò sempre perché tu possa esprimere le tue idee». Nessuno mi ha ridato l’emozione del suo ovolitare quel giorno di settembre a Roma, quando sicuramente scrissi poco e male della sua vittoria. Con pochi mi capisco a sillabe, a mozziconi e sbuffi di parole, a risatine e sospironi come con lui. Penso proprio checi vogliamo fortemente bene, ecco.

In pochi secondi Livio, quel giorno a Roma, mi ha salvato dalla peraltro poca epica giornalistica che avevo messo da parte in quel lungo magico 1960 dei miei primi Giochi, quelli invernali di Squaw Valley California Usa di uno stage a Parigi presso l’Equipe a scrivere di calcio franco italiano ed a prepararmi al Tour vinto dal nostro Gastone Nencini, e quello appunto di Berruti a Roma. Il tutto cominciato il primo giorno del 1960, quando al giornale, colleghi importanti sbadiglianti per i veglioni fine anno, scelsero il ragazzino che ero per andare all’ospedale di Tortona, dove era stato ricoverato Fausto Coppi, il quale era morto all’alba del 2 gennaio per malaria non individuata. Reportage da Tortona, io gran coppiano coinvolto e sconvolto, al ritorno a Tuttosport dopo una settimana tortonese decisero al giornale di stopparmi l’università e di aiutarmi a fare il giornalista che va, vede, annota, racconta, insomma il contrario del giornalista seduto, sdraiato di adesso. Condannandomi, in pratica, alla felicità lavorativa.

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E così le tante e magari troppe mie Olimpiadi si condensano, espandono, raggrumano in quel giorno a Roma quando, eludendo ogni servizio d’ordine allo stadio olimpico, riuscii ad arrivare a Livio che aveva appena vinto e lui quasi algido mi disse: «Due giorni fa al villaggio olimpico chiacchieravamo e magari volevo dirti che sentivo un qualcosa di bello in arrivo, ma parlavi sempre tu». E me lo diceva mentre piangevo.

E allora adesso, qui, stanco di anni di folle lavoro, preferisco giocare al gioco delle nugae pascoliane, le cosine, le cosette, si capisce a sfondo olimpico, di una bella vita del giornalista che fui, che fu. Non ricordo bene se a Montréal 1976 o a Mosca 1980, non importa, lo sketch che il collega emerito Stefano Bizzotto (Rai calcio azzurro e hockey da bolzanino) mi ricorda sempre come uno dei momenti più alti, quanto a divertissement, del suo mestiere. Dunque era accaduto che due tuffatori italiani, Klaus Dibiasi altoatesino e Franco Cagnotto (Franco ma anche Giorgio, nel suo e mio Piemonte si usa abbondare) avevano dominato la gara olimpica della piattaforma dei 10 metri, un oro e un bronzo se ricordo bene, conferenza stampa con tanto mondo che attendava i due semisconisciutelli, io ex nuotatore, giornalista già fortemente olimpico conoscitore dell’inglese, abbastanza bersagliato di domande da colleghi di tutto il pianeta.

Compreso quel celebre statunitense che mentre i due atleti entravano nella sala delle interviste, mi chiese quanti erano i tuffatori in Italia, per spiegarsi e spiegare una simile affermazione. Io gli dissi two, due, e feci il segno con due dita. Lui mi chiese: “two millions?”. Due milioni, il minimo per spiegare con un movimento di massa quel successo di un paese. Quei due e basta, gli dissi indicando Klaus e Franco che entravano in sala. Bizzotto dice che la faccia di quel collega americano da sola gli dice che ha fatto bene, lui Bizzotto, a dedicarsi al giornalismo, onde ad andare a quell’Olimpiade.

Poi quando a Sydney 2000 Domenico Fioravanti vinse per l’Italia il primo ergo storico oro olimpico del nuoto, a me la gestione dell’interrogatorio all’azzurro. Fioravanti si era subito autopresentato in spiccioli, dicendo che lui, novarese lontano dal mare, spesso nuotava in quelle pozze che nascono accanto ai nuovi centri urbanistici o ai grossi svincoli stradali, per la fuoruscita di acque misteriose o no. Mi era venuto in mente che tanti nuotatori anche campioni volevano, per nuotare bene, soltanto le impeccabili piscine ufficiali. Nemici del nuoto profondamente subacqueo, lo lasciavano casomai agli sciatori, su tutti quelli delle specialità nordiche, per le loro vacanze attive.

Decisi di chiedere a Fioravanti, per conto si capisce di tutti, colleghi italiani e non solo, se lui, uomo pozzanghere urbane o stradali, amava andare giù negli abissi marini. Ma non completai la domanda, e semplicemente gli chiesi se sapeva nuotare. Mi guardò come neanche si guarda un alieno appena manifestatosi, o un deficiente integrale. Non feci in tempo a riprendere e completare la domanda che il meglio del giornalismo natatorio mondiale, aiutato anche dalla traduzione simultanea, si suicidava dal gran ridere. Non so più cosa feci dopo, sicuramente non riuscii ad evaporare. Mai più visto da allora Fioravanti, visto eccome molte volte Gabriele Romagnoli, gran giornalista, scrittore, collega, amico, il quale mi dice però soltanto che ho raggiunto un massimo, non so di cosa ma un massimo, e poi si scusa perché gli viene troppo da ridere.

Ecco, proprio scrivendo queste righe mi accorgo che i Giochi, come d’altronde tutti gli altri eventi sportivi ai quali ho avuto la fortunaccia giornalistica di assistere, in pratica tutto lo sport di davvero tutto il mondo che ho girato (mi manca la Terra del Fuoco, è peccato?) non mi hanno lasciato dentro niente di epico, a parte quel Berruti che ha riassunto e monopolizzato tutto.

So già a priori che Parigi 2024 non mi dirà nulla di suo di speciale, ho imparato sin troppo bene a diffidare di quasi tutto lo sport, mi aspetto qualche truffa cosmica che sveli la nostra ingenuità, per esempio non mi convince niente del nuovo recitatissimo gioco del pallone, dove una squadra che esercita il possesso palla per il 90% del match rischia tranquillamente di perdere l’incontro, temo un nuovo doping totale, temo le trovate Parigi 2024, temo l’imbecillità, l’ignoranza di atleti subito troppo ricchi e padroni del mondo.

Se voglio profumi di vero sport guardo una foto: mio papà ventunenne ai Giochi di Parigi1924, con lui il suo grande amico Giampiero Combi, poi portierissimo di Juventus e Italia. Amici eccome, mio papà peraltro tutto Toro, come me. Come il giovane giornalista che è stato subito uno dei più grandi amici di un altro Giampiero, cognome Boniperti, Juventus e tanta. E guardo una mia foto con lui.

E se devo proprio andare allo show massimo di sport, non dico Giochi olimpici ma campionati europei di atletica 1971, a Helsinki l’enfant du pays Vaatainen vince i più frenetici 5000 metri della storia, qualche giorno dopo Arese di Cuneo mi vince i 1500, contenti adesso? E ci sarebbe persino un Gian Paolo Ormezzano 1951 primo in una Noli-Spotorno di nuoto, secondo suo fratello Franco…

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