“Un uomo di mondo” verrebbe da dire, non un abile oratore, e sull’italiano incespica un poco, ma è uno che ci sa fare, amichevole e cordiale, veloce nel cogliere e nel farsi capire. È Domenico Mercurio, il collaboratore di giustizia sulle cui rivelazioni sono incardinate le principali inchieste sulla’ndrangheta in Veneto.
Ci accoglie sorridente nell’appartamento che gli è stato assegnato dal servizio protezione testimoni. L’ambiente appare curato ma anonimo, non sembra la casa di qualcuno che voglia mettere radici. La possibilità di farsi intervistare da Report Mercurio l’ha colta al volo, voleva dire la sua.
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Parla a lungo, sia con la telecamera accesa che spenta. Nel primo caso pesa con cura le parole, ma la sostanza del racconto non cambia. Le sue parole vanno soppesate perché la millanteria – sempre in coppia con un certo machismo – è tipica di certi ambienti. Ma non siamo lì ad ascoltarlo per giudicare e condannare. I giudici invece, che quello devono fare, l’hanno complessivamente preso sul serio, anche se nell’ultima inchiesta sugli spari all’abitazione del giornalista Gervasutti la sua credibilità ha scricchiolato non poco. Insomma l’uomo sui singoli fatti è da prendere con le pinze. Ma la descrizione degli ambienti e del “sistema” è più che credibile. E più che preoccupante.
Fatto sta che quando parliamo di cose di ’ndrangheta in Veneto spesso lui c’entra, ci è entrato e comunque ne sa qualcosa. Ha subito l’interrogatorio di diverse Procure mentre era in carcere e i suoi racconti hanno riempito migliaia di pagine di verbali. E questo fatto lo racconta con un certo orgoglio. Non è stato un “mammasantissima”, un capo. Il suo ruolo era diverso e, pare, molto più interessante.
La prima cosa complicata da inquadrare è la sua identità criminale: non si definisce mafioso – «non sono stato mai affiliato, né tanto meno puntuto» –, ma ha avuto rapporti continuativi con quel mondo. Disprezza cordialmente la famiglia veronese, assai nota alle cronache, dei Giardino – «fanno casino» –, mentre è legato da rapporti di affetto con altre famiglie presenti in Veneto e riconosce che alcuni suoi parenti in effetti fanno parte della ’ndrangheta. Parla anche di un’entità chiamata la «fratellanza», «un’unione con varie famiglie di tutto il territorio» perché «non c’è motivo di farsi la guerra, lavoro ce n’è per tutti». Da quelle famiglie comunque acquistava il denaro che veniva dalla Calabria o da Reggio Emilia e lo riciclava attraverso le fatturazioni false. Niente droga e niente usura, questo ci tiene a sottolinearlo.
Il racconto di Mercurio, a tratti, si trasforma in una conferenza sul come riuscire in società, quali gli ingredienti del successo.
Arrivato in Veneto da poco maggiorenne, quasi una fuga da casa, si stabilisce a Lavagno nel Veronese ed impianta una ditta nel settore edile e poi poco a poco investe in attività commerciali e in una squadra di calcio. E poi la butta subito in politica. Sì perché la squadra di calcio e i dipendenti della ditta sono voti. Tremila per la precisione. Lui era in grado – così dice – di assicurarli a chi glieli chiedeva. Sarebbe così che Mercurio si è conquistato uno status. Racconta di un sistema scientifico con tanto di fotocopie della carta d’identità e di persone che controllano i seggi.
È quando parla di politica che a Mercurio s’illuminano gli occhi e si increspa la voce. La politica, ed esattamente il controllo del consenso, sono la sua passione. Il passepartout per arrivare alla gente che conta. E le relazioni con la gente che conta assicurano la reputazione che è l’ingrediente principale del successo.
Una reputazione costruita sia grazie alle relazioni con la buona società che con quell’altra, la dark side della vita di Mercurio: «Loro sapevano che io ero un po’ in alto a queste famiglie calabresi». Era la buona e la meno buona reputazione – un misto delle due – che gli consentiva di fare affari, leggi fatture false, con grosse imprese venete. «Non mi sono mai spostato dal mio ufficio, erano loro a venire da me, a scongiurarmi», racconta Mercurio.
Nella nostra testa cerchiamo di incasellare i concetti, ma l’operazione non aiuta a comprendere, anche il confine tra il galoppino politico e l’imprenditore è confuso: «Senza politica non fai fatture false, senza fatture false non fai politica» sottolinea il nostro uomo.
Non era da solo: era dentro un sistema di relazioni che lui chiama «sistema». Non è la ’ndrangheta, racconta, è qualcosa di più che si mischia nella società.
È l’area grigia, verrebbe da dire, il giro che conta a cui appartenere e che permette a Mercurio di sentirsi un po’ più riuscito rispetto alle famiglie di ’ndrangheta venete. La quantità di denaro che circolava e le connessioni facili con il potere davano la vertigine, «ci sentivamo intoccabili».
«Gli imprenditori chiedevano tre cose: liquidità, protezione, omertà», sottolinea Mercurio. Liquidità, ok, è comprensibile.
L’omertà la traduciamo in discrezione che forse rende più l’idea, ma il fatto che si parli di protezione incuriosisce. Ora Mercurio non nasconde la sua acrimonia nei confronti dei sodali veneti, politici ed imprenditori, di un tempo: appena rimasto inguaiato dalle inchieste della magistratura, chi prima gli chiedeva favori e confermava amicizia è sparito in un lampo. Usciamo dall’appartamento che è sera e sentiamo forte il bisogno di respirare a fondo.
