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In coda di notte per il permesso di soggiorno. L’odissea dei richiedenti asilo a Padova

In coda di notte per il permesso di soggiorno. L’odissea dei richiedenti asilo a Padova

Attese infinite all’Ufficio immigrazione alla Stanga: c’è chi arriva addirittura al pomeriggio per entrare la mattina. E servono mesi di attesa per un documento. La denuncia di Adl Cobas: «Diritti negati». Gli operatori: «Poco personale»

L’inferno è un’altra cosa. Chi ha attraversato deserti a piedi e mari su barconi non userà quella parola. Ma hanno occhi pieni di incredulità e rabbia i richiedenti asilo che passano notti a dormire per terra davanti all’Ufficio immigrazione della Stanga quando la mattina vengono respinti dagli operatori di polizia e si sentono dire di tornare domani.

E non sono meno arrabbiati tutti gli altri stranieri che si mettono in fila, con e senza appuntamento, per ore, nel tentativo di avere quel permesso di soggiorno che l’Italia - lo dice il Testo unico sull’immigrazione - dovrebbe garantirgli in sessanta giorni.

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Sono centinaia ogni giorno, con il freddo, e con il caldo, condannati a stare in piedi, con bimbi o anziani al seguito, davanti a una porta che si apre per pochi - senza peraltro la garanzia di soddisfarne le attese - e ne lascia fuori tanti altri.

Servizio inadeguato

L’Ufficio è al collasso. A gennaio di fronte alle proteste delle associazioni di immigrati, di Adl Cobas e delle realtà che assistono i richiedenti asilo, il questore Odorisio aveva promesso di accelerare i tempi di rilascio dei permessi, che erano arrivati a superare i dieci mesi, arrivando in qualche caso anche a quattordici.

Promessa mantenuta, spostando qualche operatore da un ufficio all’altro.

Ma il problema è riesploso, in forma ancora più grave. Tempi d’attesa infiniti, comunicazioni impossibili, email certificate senza risposta.

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Gli appuntamenti hanno un orario ma nessuno lo rispetta. Chi non ha appuntamento si accampa fuori dagli uffici dal pomeriggio del giorno prima, sperando di essere tra i dieci-dodici ammessi ogni giorno, una sorta di lotteria che si traduce in accampamenti degradanti, che non fanno scandalo solo perché non li vede quasi nessuno.

La denuncia

Il 12 giugno, poco dopo l’alba, Adl Cobas e volontarie delle associazioni sono tornati fuori dall’Ufficio per raccogliere le lamentele degli immigrati, i venti che avevano passato la notte lì, più di cinquanta in fila prima che il sole sorgesse del tutto, oltre duecento alle 7.58 quando si sono aperte le porte.

Ma alle 8.01 per chi non aveva appuntamento il tentativo era già fallito, niente da fare, ritornare domani.

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Ma anche per chi entra la vittoria è un’ipotesi: il percorso per arrivare al permesso di soggiorno è un labirinto burocratico che mette a dura prova anche patronati e sindacati.

Chi sbaglia una carta deve ripassare due mesi dopo. Chi ottiene il permesso dopo otto mesi d’attesa scopre che dura un anno, sì, ma calcolato dal giorno della richiesta, quindi fra quattro mesi dovrà chiederne un altro.

Chi azzarda un ricongiungimento deve prendere atto che le Poste a Padova - solo qui in Italia - non accettano richieste. Serve un’informazione, anche banale? Ore di fila. Mercoledì 12 giugno alle 9 c’erano 64 persone in attesa.

«Diritti negati»

«Questo è il modo che abbiamo a Padova nel 2024 per accogliere le persone che devono formalizzare la richiesta di asilo o chiedere un permesso di soggiorno», commenta Madjana Nuredini, consulente per l’immigrazione di Adl Cobas, «ma anche solo per consegnare una foto o un documento. Così queste persone si vedono negare diritti, non possono avere una tessera sanitaria, un lavoro, una casa, una vita normale».

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Sindacati e associazioni hanno ottenuto un incontro con la dirigente dell’Ufficio.

Le storie di chi è in coda

Sonia, 29 anni, è arrivata a Padova dalla Siria, è un architetto, sta facendo un master, studia la trasformazione delle città. A settembre ha chiesto il permesso di soggiorno, ha avuto un appuntamento in questura e per gennaio il suo documento doveva essere pronto. Non lo era.

«Mi hanno rimandato a fine maggio, sono venuta qui per tre settimane, sempre alle 6, oggi sono arrivata alle 4. Non posso venire a dormire qui, sono una ragazza, già uscire di notte da sola nelle strade deserte non mi piace», racconta.

Senza permesso di soggiorno, Sonia non può neanche tornare a casa a trovare la madre malata. «Ho la ricevuta della richiesta, ma non ci sono voli diretti per la Siria e se faccio scalo in un altro Paese, quel pezzo di carta non vale per nessuno. I miei professori dell’università hanno cercato di aiutarmi a risolvere il problema, ma non c’è stato niente da fare. Quando racconto questa cosa in Siria, nessuno mi crede. Mi dicono: ma com’è possibile? Sei in un paese civilizzato. L’assurdo è che il mio permesso durerà un anno, ma da settembre, cioè da quando l’ho richiesto. Quindi se anche me lo dessero oggi, fra tre mesi dovrei rifarlo perché io qui devo starci due anni».

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Alexandra ha 73 anni, è ucraina e fa la badante di una donna che ne ha 90. È in fila dalle 5 e non è la prima volta. «È una sofferenza», dice. «Ho male a una gamba, ma mi preoccupa soprattutto il fatto che ogni volta devo lasciare sola la signora per venire qui».

Ad Alexandra era arrivata la convocazione per ritirare il permesso il 2 aprile. Non ha visto l’email, ha saltato il turno e ora non sa come fare. Perciò deve mettersi in fila.

«Sono andata al patronato, ma non sono riusciti ad avere informazioni dall’ufficio immigrazione. Sono venuta qui, ho fatto ore di fila e mi hanno detto di tornare oggi alle 6, ma non so se riuscirò a entrare».

Udin è bengalese, ma ha la cittadinanza italiana. Però suo figlio piccolo no, quindi ha bisogno del permesso per il ricongiungimento. «Ho l’appuntamento per le 9.45», racconta. Ma alle 8 ha almeno 50 persone davanti. E l’operatore di polizia che fa entrare le persone in coda lo dice chiaramente: «Non tenete conto degli orari, non servono».

Il bambino, in fila con Udin, gioca con il cellulare, l’attesa sarà lunga.

Navvaz è pakistano, deve fare il rinnovo, ma anche lui non ha appuntamento e va per tentativi. «Martedì sono passato qui di sera», dice, «c’erano dieci persone davanti all’ufficio, pronte a dormire qui. Così io sono tornato stamattina alle 4, ma ce n’erano almeno venti. Non credo di farcela, più di dieci non ne fanno entrare».

La richiesta di permesso di Emran, bengalese, si è bloccata per un problema con le impronte digitali. Ma non sa niente di più, quindi si mette in fila per provare ad avere informazioni.

«Sono arrivato martedì alle sette e mezza, ma era tardi. Oggi sono qui dalle quattro e mezza e c’erano già più di venti persone in fila», racconta.

Melecjana, albanese, si è messa in fila intorno alle 6, ma alle 9 deve andare a lavoro e non sa come fare. «Mi hanno sospeso la pratica per il permesso, ho già dato le impronte il 27 marzo ma qualcosa non era andata bene. Mi hanno fatto tornare il 27 maggio, ho ridato le impronte, quel giorno c’era anche mio marito. La sua pratica è andata bene, la mia si è fermata di nuovo e non so perché. Sono anni che va così, io per il primo permesso ho aspettato otto mesi».

Mille disavventure

Tra le persone in fila si raccontano disavventure di altri immigrati. C’è quello che ha sposato un’italiana ma sta aspettando il permesso di soggiorno da ottobre. Quella che è stata convocata via email per ritirare il permesso, ma si è presentata senza l’email stampata e l’hanno mandata via.

C’è quello che ha aspettato un anno intero per il rinnovo, poi improvvisamente serviva un’altra carta e gli hanno detto di tornare dopo altri due mesi, e queste carte a volte sono impossibili da trovare, soprattutto le visure catastali delle case in affitto.

Ci sono quelli – tanti – che con il documento in mano si sono illusi che fosse tutto a posto e invece una lettera del nome o del cognome era sbagliata e hanno dovuto rifare tutto.

Fra tanti che raccontano, infastiditi ma pazienti, c’è anche chi sbotta: «Abbiamo fatto richiesta nove mesi fa e ogni giorno qui è così. Quanti siamo ad aspettare? E quanti sono loro negli uffici? Qualcosa non funziona».

E poi ci sono quelli che si devono preoccupare anche del parcheggio, che dalle otto diventa a pagamento: «Ho già preso la multa, sembra che i vigili non aspettino altro che lo scoccare dell’ora per fare il giro di controllo».

Gli operatori: «Siamo pochi, è il caos»

In un altro modo, certo, ma sono disperati anche loro, gli operatori di polizia impiegati nell’ufficio immigrazione. Ogni giorno in trincea ad affrontare onde di richieste più alte degli argini che le loro forze consentono di costruire.

«Ci avevano dato sette uomini in più, ma poi ce li hanno tolti e altri sono andati via», racconta uno, cercando di spiegare perché la frustrazione sua e dei colleghi sfoci talvolta in atteggiamenti duri. «Noi non ce la facciamo e basta. Il sistema elabora una prenotazione ogni due-tre minuti, quindi noi dovremmo essere in grado di evadere ogni pratica nello stesso tempo. Impossibile».

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Martedì 11 giugno - raccontano gli operatori - le prenotazioni erano 158. Ma a queste devono sommarsi tutte le persone che arrivano senza appuntamento, quelle che cercano informazioni perché il sistema fa acqua da più parti.

Le mail? «Non le vede nessuno», detta così, dritta e senza giri di parole. Gli orari? «Non contano». Impossibile rispettarli. Tra l’altro - e fa sorridere amaramente - gli orari degli appuntamenti sono al minuto: 9.43, 10.02, 11.14. Come se fosse possibile veramente, in una situazione di caos come quella che si genera ogni giorno, rispettare un tempo.

«A fine mattinata la sala è ancora piena, non possiamo mandarli via. Dovremmo fare pausa pranzo, proviamo a mangiare in mezz’ora e riapriamo nel pomeriggio», racconta un operatore. «Ma di quelli senza appuntamento più di dieci, dodici al massimo, la mattina non possiamo farne entrare».

C’è chi perde la pazienza, chi si rivolge agli immigrati con parole che per loro sono incomprensibili. Li rimproverano: «Dovete leggere i cartelli!». Sono due fogli attaccati ai pilastri che danno informazioni approssimative: richiedenti asilo da una parte, ritiro permessi e informazioni da un’altra. Facile fare confusione.

Sbagliano, perché si confondono, anche i volontari che dovrebbero gestire gli accessi, così le file si formano a caso, mentre dovrebbero essere tre, una dedicata a donne e persone fragili.

La conseguenza è il caos, qualche operatore perde il controllo, spinge indietro i primi della fila, gli urla contro. «È così ogni giorno, oggi va meglio perché ci siete voi a guardare», racconta uno che è in fila per la quinta volta.

«La situazione è impossibile, sia per noi che per loro. Non è normale», si sfoga un operatore. «Oggi va anche bene, non stanno litigando. So che sono qui da ieri. Ma se devono lamentarsi, che vadano dai sindacati, noi cerchiamo solo di lavorare».

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