Un museo a cielo aperto, il cui patrimonio è sotto gli occhi di tutti. Ma solo uno sguardo attento, allenato ed esperto è in grado di distinguere il banale sasso da greto o il tronco d’albero da un prezioso reperto fossile. Allenatissimo era quello di Marino Ferraresi, ferroviere in pensione di San Cipriano che, tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta, con qualche amico - Felice Bertone, Paolo Brega, cominciò a scandagliare e setacciare le rive del Po, in cerca dei tesori che avrebbero raccontato il suo lontano passato e quello degli animali che vi prosperavano, dagli alci ai bisonti e ai mammut. Fino ai primi uomini di Neanderthal e al Sapiens.
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Oggi che Marino non c’è più - è mancato nel 2011 - il suo esempio è continuato da Andrea Scagni e dalla paleontologa Simona Guioli (direttrice dei musei naturalistici di Voghera e Stradella). Andrea vive alla Ripaldina di Arena, di mestiere fa l’agente della polizia idraulica della Regione Lombardia, ma appena può indossa gli stivali e per ore setaccia il fiume. «Marino ci ha insegnato tantissimo – spiegano – a cominciare dalla tecnica di ricerca che consiste nel procedere molto lentamente e nel non farsi mai ingannare dalla prima apparenza». Lui e gli amici erano autodidatti, ma pian piano, con le letture, si sono documentati, hanno allargato le conoscenze e la competenza, mettendosi in contatto con le università e i musei. Le loro scoperte hanno arricchito le teche e gli scaffali dei musei della zona, dopo che quelle dell’Ottocento erano finite in gran numero a Torino e Milano. Una sorta di “seconda ondata” di ricercatori.
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La passione per il fiume
«Li univa l’infinita passione per il Po – sottolinea Guioli – la stessa raccontata da Gianni Brera e dal regista Mario Soldati nei suoi documentari e film» (uno dei quali, “Italia piccola”, girato in gran parte ad Arena, dove il ricordo non è ancora sbiadito). I ritrovamenti più interessanti? «Un dente di mammuth, il cranio di un megacero femmina, una calotta umana probabilmente appartenente a un Neanderthal, ma ancora in fase di studio e di analisi, un palco di alce latifrons risalente all’ultima glaciazione, le imponenti corna di un bisonte».
Un’era lontana molte migliaia di anni, in cui la natura incontaminata prosperava e la faceva da padrone. Poi è arrivato l’uomo e tutto - come ben sappiamo - si è complicato. «Il fiume è sempre più degradato – si sfoga Scagni, che per lavoro si occupa proprio della cura e tutela dei corsi d’acqua - l’inquinamento, la maleducazione e l’inciviltà lo stanno mettendo a durissima prova. L’altro giorno ho sorpreso alcuni fuoristrada che scorrazzavano lungo il greto, devastandolo».
Così, scoprire e salvare fossili intatti diventa sempre più difficile. Ma c’è chi non si arrende, fedele anche alla lezione di Giulia Sacchi Vialli (vedi scheda a fianco), fondatrice dell’istituto di Paleontologia dell’Università di Pavia, negli anni Cinquanta e alla quale si deve l’approccio scientifico alla materia e ai metodi di ricerca, studio e classificazione dei reperti. —
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