Il giuslavorista: “Riforma degli ammortizzatori modesta, le politiche attive non ci sono”
Le condizioni per un nuovo patto tra governo e parti sociali, sul modello di quello di Ciampi del ’93, «non ci sono». Almeno su una cosa, il giuslavorista Pietro Ichino la pensa come Maurizio Landini. «Il presupposto della buona concertazione è che tra governo e parti sociali ci sia la condivisione almeno degli obiettivi fondamentali e dei percorsi per realizzarli», spiega. «Oggi il leader della Cgil non condivide granché degli obiettivi del governo – sottolinea – né il modo per realizzarli». Mentre Landini minaccia lo sciopero «Cisl e Uil paiono incapaci di esprimere una linea decisamente autonoma rispetto alla Cgil».
Professor Ichino, con la legge di bilancio è arrivata finalmente la riforma degli ammortizzatori sociali; che cosa ne pensa?
«Se per riforma si intende l’estensione degli ammortizzatori a quasi tutto il tessuto produttivo, questa è già stata fatta con il Jobs Act, in particolare con il decreto 148 del 2015. L’intervento proposto in questa Finanziaria è solo un modesto aumento della durata del sostegno del reddito per i settori non manifatturieri, che sono comunque già coperti».
La cassa integrazione, però, ora coprirà anche le micro-aziende del terziario con meno di 5 dipendenti.
«Sì, la sola vera novità è questa; ma pare che le imprese interessate non ne vogliano sapere, perché rifiutano di farsi carico del contributo necessario».
Chi ha ragione?
«A me sembra che avesse ragione il legislatore del 2015, che le aveva escluse. Perché nel pulviscolo delle imprese di dimensioni minime è troppo facile l’abuso di questo ammortizzatore, ed è troppo difficile stanarlo. Comunque, se la copertura viene estesa deve essere esteso anche il contributo».
Il reddito di cittadinanza è stato confermato e rifinanziato. Grandi assenti sembrano essere le politiche attive.
«Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza c’è un capitolo dedicato a questo tema, dal contenuto molto generico. Ed è in gestazione un decreto interministeriale, su cui è stata raggiunta un’intesa Stato-Regioni; ma è un testo prolisso e fumoso, che non indica obiettivi specifici, misurabili, collegati a scadenze temporali precise, cui le Regioni debbano considerarsi vincolate se non vogliono essere sostituite in via sussidiaria dall’Anpal».
Sulle pensioni il governo ha optato per un rinvio. Qual è la strada per garantire un po’ di flessibilità alla legge Fornero?
«La flessibilità è coessenziale al metodo contributivo di calcolo delle pensioni: tanto hai contribuito, tanto ricevi; se dunque vai in quiescenza prima, ricevi molto meno, perché contribuisci meno e percepisci la pensione più a lungo. Il problema è che non si accetta questo meccanismo molto semplice: si pretende che la pensione arrivi prima, ma senza decurtazioni. Cioè che, come sempre in passato, paghi Pantalone».
Si parla tanto di una pensione di garanzia per i giovani che hanno carriere discontinue. Lei ha una proposta?
«Questo problema va risolto innanzitutto assicurando una congrua copertura contributiva per i periodi di disoccupazione, tra un lavoro e l’altro; e questo, con l’universalizzazione del trattamento di disoccupazione realizzata nel 2015, è stato fatto. Inoltre investendo molto sui servizi al mercato del lavoro: perché il problema occupazionale delle nuove generazioni, in Italia, nasce dalla mancanza di percorsi che consentano ai giovani di conoscere il mercato, sfruttarne tutte le opportunità».
Già, ma se il lavoro non c’è…
«Questo è l’errore: tra i grandi Paesi europei l’Italia è quello in cui le imprese hanno maggiore difficoltà a trovare le persone che cercano. Come ho mostrato nel mio libro “L’intelligenza del lavoro”, abbiamo dei veri e propri enormi “giacimenti occupazionali” inutilizzati: parlo di molte centinaia di migliaia di posti che restano permanentemente scoperti».
Per i sindacati è un problema salariale.
«Se così fosse sarebbe facile risolverlo aumentando gli standard retributivi. Purtroppo, invece, è soprattutto un problema di cattivo funzionamento dei servizi di cui parlavo prima: orientamento, informazione, formazione mirata agli sbocchi occupazionali esistenti e monitorata capillarmente nella sua qualità, assistenza alla mobilità».
Stiamo vivendo un balzo del Pil ma l’occupazione cresce poco e aumenta soprattutto quella precaria. Come mai?
«In tutti i Paesi è normale che l’aumento dei livelli occupazionali arrivi con qualche ritardo rispetto alla congiuntura positiva. Quanto al lavoro precario, il dato a cui occorre guardare non è quello del flusso delle assunzioni: accade dappertutto che prevalgano quelle a termine; ciò che conta è il dato di stock, che vede il tasso italiano di lavoro a termine intorno al 15 per cento, in linea con la media europea».
Sul salario minimo ci sono le solite resistenze. È vero che è uno strumento che potrebbe sfasciare la contrattazione?
«No. Questa è una preoccupazione dei sindacati italiani non giustificata. Al contrario, uno standard minimo universale, auspicabilmente modulato in relazione al costo della vita regionale, può essere la garanzia necessaria per consentire il pieno sviluppo della contrattazione aziendale, che è a sua volta la condizione per alimentare il circolo virtuoso tra aumento della produttività e aumento dei redditi di lavoro»