Da 9 a 4 anni: accolta la tesi della difesa, l’accusa è stata derubricata in omicidio colposo. Il figlio 40enne torna libero
VELLEZZO BELLINI. I giudici di Pavia lo avevano condannato a 9 anni e 4 mesi per avere ucciso il padre. Ma in appello il verdetto per Giovanni Dagrada, 40 anni di Vellezzo Bellini, è stato riformulato sulla base di un’accusa diversa, non più omicidio volontario ma colposo. In sostanza non ci sarebbe stata da parte del figlio l’intenzione di uccidere Piero Dagrada, 77 anni, trovato cadavere in casa nel 2018. E questo ha portato al dimezzamento della pena. Comunque una condanna, ma a 4 anni e 5 mesi. Per effetto della sentenza, Dagrada, che ha già scontato più di due anni di detenzione e al momento del verdetto si trovava ai domiciliari, è stato subito rimesso in libertà. Ora è ospite del fratello. «Siamo molto soddisfatti, alla fine è stata accolta la nostra tesi», si limitano a commentare gli avvocati difensori Federica Podda e Riccardo Ricotti.
La sentenza di primo grado
La difesa già nel processo di primo grado aveva parlato di un «incidente» e chiesto la derubricazione del reato, da omicidio volontario a colposo, oltre che l’assoluzione. La Corte d’Assise di Pavia, pur riconoscendo le attenuanti generiche, aveva sposato la tesi dell’accusa e pronunciato un verdetto di condanna per omicidio volontario, mentre era caduta l’accusa di occultamento di cadavere.
La vicenda
Il ritrovamento del corpo di Pietro Dagrada, privo di vita, era stato fatto, il 12 novembre del 2018, dall’altro figlio, Antonio. In base agli accertamenti condotti dai carabinieri e dal medico legale, il decesso del 77enne, che soffriva di una malattia degenerativa, sarebbe stato da far risalire ad alcuni giorni prima, e il figlio Giovanni sarebbe rimasto a vegliare il cadavere del padre. In base alla ricostruzione degli inquirenti, quando il fratello entrò in casa il corpo del genitore era sul pavimento della camera, senza vita, mentre Giovanni Dagrada era in uno stato confusionale.
L’assenza di dolo
Per il medico legale Yao Chen, consulente della procura, la morte era sopraggiunta per asfissia provocata da «compressione meccanica» della gabbia toracica. Il consulente della difesa aveva invece ipotizzato una causa di morte diversa. Per la difesa l’uomo era rimasto vittima di un incidente: il figlio, che lo accudiva da tempo, sarebbe caduto sul corpo del padre, che si trovava a terra dopo avere avuto un malore. Non c’era dunque l’intenzione di uccidere il padre. Conclusione condivisa dai giudici di secondo grado. —