Dal cinema al salmo diventato canzone da discoteca: dati e testimonianze aiutano a non dimenticare
«Gam Gam Gam Ki Elekh». Queste parole forse a qualcuno faranno tornare in mente una canzone uscita nel 1994. Da discoteca, di Mauro Pilato e Max Monti. In realtà è un salmo ebraico che viene intonato tendenzialmente durante lo Shabbat (il sabato). È lento e triste, poiché è un canto che viene dedicato ai momenti di grande disperazione e alla memoria di tutte le vittime del Nazismo.
Anche Ennio Morricone ne fece una bella versione con un ritmo allegro e incalzante per farla cantare ai piccoli attori di “Jona che visse nella balena”, di Roberto Faenza, dove l’attenzione è focalizzata sui più piccoli nei campi di sterminio. Eppure l’immaginario collettivo di bambini che cantano canzoni malinconiche o disegnano di nascosto nei campi di concentramento non è del tutto fedele alla realtà. In tanti film vediamo bimbi e ragazzini nei campi, ma dalle testimonianze dei pochi sopravvissuti comprendiamo meglio quale sia stato il loro vero destino. Racconta Elie Wiesel nella sua autobiografia “La notte”: «Non lontano da noi delle fiamme salivano da una fossa, delle fiamme gigantesche. Vi si bruciava qualche cosa. Un autocarro si avvicinò e scaricò il suo carico: erano dei bambini. Dei neonati!».
Il numero di bambini uccisi nei campi di sterminio oscilla tra un milione e un milione e mezzo. I nazisti di preferenza selezionavano le persone in grado di lavorare, quindi quasi tutti i bambini sotto i dodici anni venivano mandati subito a morte. C’erano diverse strade per eliminarli: con fucilazioni di massa, con i gas o più lentamente con la fame, il freddo e gli stenti. Inoltre i bambini potevano fungere da cavie per l’angelo della morte: così veniva chiamato il medico Josef Mengele, il quale li usava per i suoi esperimenti.
Oltre agli esperimenti sui gemelli, cercò di schiarire gli occhi dei bambini iniettando nell’iride del metilene blu, che però non diventava azzurro e i bambini sottoposti a tale tortura, oltre a provare un dolore straziante, diventavano ciechi e venivano uccisi. Mengele era spietato anche perché sapeva come attirare a sé le sue piccole vittime. Ne è esempio la storia del piccolo Sergio, cugino delle due sorelle ebree Tatiana e Andra Bucci (sopravvissute). Nel film #AnneFrank, vite parallele, le due sorelle raccontano che un giorno una donna disse loro: «Verrà un uomo che vi dirà di fare un passo avanti se volete rivedere la vostra mamma. Ma vi inganna. Non lo fate il passo avanti». Andra e Tatiana le credettero, ma Sergio desiderava con tutto il cuore rivedere sua madre, dal quale era stato separato. Fece il passo avanti ma non venne portato da sua mamma: finì ad Amburgo dove Mengele si servì di lui e altri diciannove bambini come cavie da laboratorio. Quando gli americani liberarono Amburgo i nazisti impiccarono Sergio e tutti gli altri, per non lasciare tracce della loro brutalità. Infine non bisogna dimenticare che le prime vittime del Nazismo furono i bambini disabili. I nazisti, prima di eliminare tutti quelli considerati non abbastanza di “razza ariana”, stabilirono che era necessario eliminare la parte “malata” della Germania. Mario Paolini, pedagogista e formatore, lo spiega nel discorso tenuto al Palazzo Ducale di Genova lo scorso 27 gennaio, Giornata della Memoria. Si contano almeno cinque mila bambini disabili uccisi dopo essere stati usati per i tremendi esperimenti. —