Una delle storie più curiose (e più sfortunate) del cinema indipendente italiano d’autore si svolge a Trieste e inizia 50 anni fa. È il 29 agosto 1974 quando “Il Piccolo” titola: “Imminente ciak a Trieste di un film comico tutto d’azione”.
Nell’articolo si apprende che il regista veronese (con nonni triestini e genitori di Cividale) Mario Garriba, definito “uno dei più interessanti esponenti del giovane cinema italiano”, in un incontro con la stampa al Rossetti ha annunciato che girerà in città “tra ottobre e novembre, ma forse con una coda ai primi di dicembre”, un film dal titolo “Ma l’amor mio non muore”.
«Si tratterà – spiega Garriba – di un film comico tutto girato sull’azione. Una ripresa delle vecchie comiche, piena di gags e di trovate».
Tutto sembra ben avviato per questa pellicola finanziata, si legge, da Gian Vittorio Baldi, già produttore di Bresson, Godard e Pasolini. Il regista dà anche appuntamento al Rossetti, per i due giorni successivi, a chi volesse provare a entrare nel cast.
«Ho bisogno di venti o trenta caratteristi – afferma Garriba – tipi particolari, singolari, di ogni età, dai bambini agli anziani». Solo il ruolo del protagonista è già assegnato, al fratello gemello del regista, Fabio Garriba, che interpreterà «un correttore di bozze – racconta Mario – una persona timida e introversa, che un giorno incontra una ragazza e s’innamora perdutamente, tentando di conquistarla con pedinamenti e travestimenti, ma non fa altro che incappare in disastri e guai incredibili».
Tutto sembrerebbe dunque filare liscio, anche perché Garriba, già assistente di Fellini per “Amarcord” e alla sua seconda regia, con l’opera prima “In punto di morte” aveva vinto nel 1971 addirittura il Pardo d’oro al Festival di Locarno.
Un esordio, interpretato pure dal gemello Fabio, che riprendeva il tema de “I pugni in tasca” di Bellocchio della contestazione della famiglia, ma da un punto di vista ironico e surreale. Il film era anche il suo saggio di regia al Centro sperimentale di Roma, e il presidente del Centro, il grande Roberto Rossellini, gli aveva scritto: «Bravo, bravo, bravo. A nome mio e del Centro sperimentale». E a posteriori si dirà che “In punto di morte” preannunciava il futuro cinema di Nanni Moretti col personaggio stralunato di Michele Apicella.
Ma un mese esatto dopo l’annuncio delle riprese triestine dell’opera seconda, il 29 settembre 1974 ecco un colpo di scena.
Lo stesso Garriba comunica al “Piccolo” un inaspettato dietrofront, con una lettera amara e sarcastica che allude a problemi produttivi: «Ieri credevo di fare un film, oggi mi dicono che non è più possibile». Accennando poi che “i motivi veri sono tanti.
Un discorso troppo lungo che diventa meglio fare un’altra volta, quando sarò meno arrabbiato”, Garriba conclude ringraziando «il Rossetti che mi ha permesso di scegliere attori e attrici, Claudio Martelli che mi ha spiegato Trieste, i giovani della Cappella Underground che stimo. Non ho altro da dire! Grazie a tutti e tante scuse per il disturbo! Mario Garriba».
Si trattava di una rinuncia sicuramente penosa per il regista, perché Garriba, che conosceva bene Trieste dalle gite coi genitori da Cividale, aveva colto in anticipo, ben prima della scrittrice Jan Morris, le caratteristiche scenografiche della città come affascinante “non luogo”.
Alla domanda del Piccolo, «ma perché proprio Trieste per questo suo secondo film?», il regista spiega: «Trieste è una città diversissima dalle altre, è come se fossero dieci città l’una dentro l’altra. Voglio evitare che il mio film sia legato a una cultura ben precisa, lo voglio svincolato da un ambiente troppo tipico».
Ma la storia curiosa e sfortunata di questo film non finisce qui, diventando un esempio della resilienza e insieme dell’incombente fallimento che caratterizza in generale il destino dei giovani registi, anche di quelli più promettenti.
La pellicola immaginata da Garriba a Trieste infatti si girerà, col nuovo titolo “Corse a perdicuore”, ma ben cinque anni dopo, nel luglio 1979. Nel frattempo, il film deve avere come protagonista prima Enzo Jannacci e poi Roberto Benigni, ma l’attore toscano sceglie all’ultimo la proposta di Marco Ferreri per “Chiedo asilo”.
Garriba a quel punto obbedisce al nuovo produttore, Alberto Grimaldi, che gli impone Andy Luotto perché, in base a un sondaggio, era il personaggio più famoso del momento dopo il Papa e Pertini, grazie alla trasmissione tv “L’altra domenica” di Arbore.
Ma Luotto non possiede l’irriverente e trascinante infantilismo di Benigni, e così arriva il disastro. “Corse a perdicuore”, girato in Piazza Unità, Giardino pubblico, Villa Revoltella e per le strade triestine, risulta troppo strano e malinconico per una commedia.
Il lancio viene progettato per Natale, ma incassa in tutto 504mila lire per un totale di 168 spettatori (due cinema, quattro giorni di programmazione). Insomma, “nobbuono”, per parafrasare il Luotto de “L’altra domenica”. Il secondo film di Garriba è così anche l’ultimo.
Ma per i posteri rimangono il giudizio positivo del Mereghetti e soprattutto le osservazioni del critico veneziano Domenico Monetti, che sui fratelli Garriba ha scritto il libro “I gemelli terribili del cinema italiano”, e che nell’opera di Mario vede segnali poi ripresi da autrici e autori come Archibugi, Ozpetek, Alice Rohrwacher, i nostri Magnani e Samani: «“Corse a perdicuore” preannuncia tutto il futuro cinema minimalista italiano, costituito dalla mancanza di epos, la cura per il dettaglio della quotidianità spicciola, venata da un lirismo enigmatico e a tratti magico».