foto da Quotidiani locali
Ambasciatore Massolo, la visita di Xi Jinping in Europa tocca Francia, Serbia e Ungheria. Le ultime due sono interlocutori stabili, qual è il rapporto con Parigi?
«Xi è tornato a Parigi, dov’era stato nel 2019, sempre con la sua prospettiva: diventare una potenza leader nel mondo. Nel frattempo, ha l’idea di minare la compattezza del campo occidentale, in due maniere: attraverso una politica economica e commerciale molto aggressiva, basata su esportazioni sussidiate che accendono i protezionismi e mettono un cuneo anche tra Europa e Stati Uniti. In secondo luogo, giocando sulle diverse sensibilità europee verso gli Usa circa i rapporti con Pechino: chi si fa portavoce di un’Ue più autonoma nelle scelte e chi preferisce evitare fughe in avanti. Xi cerca di esasperare questa contraddizione nel campo occidentale».
Come funziona la pressione economica?
«Xi lusinga gli europei dicendo loro che, rispetto alle alte mura americane, è conveniente per Europa e Cina sviluppare una sinergia che allarghi le supply chain, che per Pechino sono gli Usa ad accorciare. In sostanza dice: “Parliamoci, siamo tutti impegnati in una transizione energetica e noi siamo i detentori della tecnologia verde, non avete alternative. Se ascoltate gli americani vi troverete stretti tra i protezionismi Usa e le nostre esportazioni”».
Il legame con Mosca?
«C’è una forte pressione occidentale sulla Cina perché fermi le forniture di tecnologia dual use e assuma un ruolo di moderatore verso Putin. Xi sa di non poter tirare troppo la corda, ha difficoltà economiche da gestire e non può mettere a repentaglio quel vincolo di complementarietà fra Usa e Cina che sussiste pienamente tuttora. Sa però anche di poter far leva su questa sua presunta influenza su Putin per cercare di trovare un punto di sintesi. Vale anche per il rapporto fra Cina, Iran e i sabotaggi degli Houthi, con l’Occidente che chiede a Pechino di influire».
Qual è il futuro della difesa europea e il suo rapporto con la Nato?
«Nel futuro prevedibile l’Europa non sarà strategicamente indipendente senza gli Usa. La difesa europea va pensata quindi in termini di complementarietà. Noi abbiamo bisogno degli Usa e loro hanno bisogno dell’Europa, non come contraltare ma come componente forte in un rapporto transatlantico. Un Occidente autorevole. Qualunque sarà l’assetto finale dell’Ucraina, ci troveremo a gestire un periodo di contrapposizione con la Russia e dovremo disporre di una deterrenza credibile. È chiaro che è un processo lungo che sconta la mancanza di una definizione compiuta di interesse europeo, ma non ha necessità di essere compiuto per essere credibile. L’importante è avviarlo: migliore procurement, evitare le duplicazioni, rafforzare la base industriale. Le forme di finanziamento non possono essere solo nazionali, prima o poi si richiederanno strumenti europei come la Bei o l’assunzione di debito europeo».
In Ucraina esistono le condizioni per raggiungere una soluzione diplomatica?
«Molto dipende dalla situazione sul terreno. Gli aiuti Usa ed Eu dovrebbero consentire agli ucraini di arrivare a fine anno e valicare le elezioni americane. Nell’anno venturo un esito andrà trovato, negoziato o di fatto. L’Occidente dovrà aiutare l’Ucraina ad arrivare all’eventuale tavolo nella posizione più forte possibile. Difficilmente si potrà prescindere dalla situazione sul terreno, che vede un quinto dei territori in mano russa. Si tratterà di evitare situazioni peggiori e mettere in sicurezza l’Ucraina, mettendola sulla via dell’integrazione alle strutture europee e atlantiche».
Possiamo porci la stessa domanda anche per l’altra grande crisi in atto, quella di Gaza.
«La guerra in Ucraina e quella a Gaza hanno due dinamiche diverse. La prima è destinata ad aleggiare come una nube tossica di contrapposizione. In Medio oriente ci sarebbero le premesse per una evoluzione verso un assetto di segno occidentale, di sviluppo e crescita della regione. Vi è una forte cointeressenza fra il desiderio di sicurezza israeliano e i paesi arabi moderati che credono negli accordi di Abramo. Perfino l’Iran ha interesse ad allentare la morsa delle sanzioni. Gli americani vogliono stabilizzare l’area per concentrarsi sul Pacifico. Cosa deve succedere perché avvenga? Israele deve essere al riparo da altri attacchi e va salvaguardata la prospettiva dei due stati. Serve uno sforzo Usa che dia sicurezza a Israele e status ai palestinesi».
Il suo nuovo libro si intitola “Realpolitik”. Quale dev’essere il realismo dell’Italia oggi?
«Prendere atto che da soli non si va lontani, e quindi scegliere accuratamente i compagni di strada tra i nostri alleati. Questo è il potere di coalizione. Non devono nemmeno essere sempre gli stessi, purché sia chiaro che la nostra posizione è in Europa e nell’Occidente. Bene fa il governo a seguire una politica occidentale sull’Ucraina, farebbe altrettanto bene ad andare nella direzione del rafforzamento delle nostre capacità di difesa. Le tre dimensioni si legano: collocazione, sicurezza e potere di coalizione. Il che non significa che non dobbiamo più parlare con la Cina e gli altri paesi emergenti, è la differenza che c’è fra un alleato e un partner: con l’alleato si può non andare d’accordo ma si concorda sui principi di fondo, con il partner si possono fare intese prendendo laicamente atto del fatto che i principi di fondo non sono condivisi. Il rischio da evitare è il “ma anche”. Non si può andare d’accordo con tutti».
Pochi conoscono come lei la Farnesina. Quali sono a suo avviso i punti di forza e i punti deboli della diplomazia italiana oggi?
«I punti forti sono la qualità dei diplomatici italiani, un corpo selezionato di grande livello, che crede in quello che fa e condivide il privilegio e il senso di servire lo Stato. Altri pregi sono la flessibilità e il carattere olistico della nostra scuola diplomatica, non dogmatica ma fedele ai valori occidentali ed europei. I punti deboli li condividiamo con le altre diplomazie del continente: l’idea del servizio diplomatico europeo resta incompiuta senza la definizione dell’interesse europeo».
Il 7 ottobre ha dimostrato che anche gli apparati di servizi più efficienti possono essere presi alla sprovvista. I servizi italiani sono noti per aver saputo tutelare l’Italia anche durante la stagione del terrorismo islamista. Questo fattore è ancora valido?
«In Israele, al di là di alcune poco sagge decisioni politico-militari, è venuto meno il rapporto di fiducia fra governo e apparati. La riforma della giustizia di Netanyahu non ha solo portato la gente in strada ma creato un clima di sfiducia fra la funzione pubblica e l’esecutivo. In Italia per fortuna questo è totalmente assente, è pieno il patto di fiducia fra governo, apparati e direi anche opinione pubblica. Molti fattori contribuiscono a rendere specifica la situazione italiana, ma la tradizione di collaborazione fra intelligence e forze dell’ordine che abbiamo costruito è molto positiva». —