foto da Quotidiani locali
La realtà, anche quella individuale, diventa ogni giorno più complessa, ma noi abbiamo sempre meno tempo da perdere e poca voglia di star lì a districare i nodi, perciò tendiamo a trasformare ciò che è complicato in qualcosa di semplice. Non vogliamo penare con le difficoltà, vogliamo che le nostre parole siano spicce, poche e affermative, e che di conseguenza le nostre pratiche assomiglino quasi sempre a gesti automatici.
La vediamo, questa semplificazione poco pensata, nelle discussioni pubbliche (un esempio recente: le polemiche seguite alle canzoni di Sanremo), nei discorsi che facciamo al bar, nei modi rapidi con cui di solito rispondiamo alle domande dei nostri figli. In breve: nei modi con cui ormai stiamo tutti vivendo. È un vero disastro, se ci riflettiamo un momento, cioè se guardiamo a che cosa ne risulta.
Non è tanto questione di intelligenza artificiale, ma di VA, di Vita Artificiale, di un vivere che non ha più alcuna parentela con il pensare, poiché non possiamo più chiamare pensiero qualcosa che tende a slegarci da qualunque dubbio o senso critico, qualcosa che sembra non avere più niente a che fare con la contraddizione e la complessità delle idee. Esagero? Me lo auguro, ma purtroppo non riesco a vedere attorno a noi, nel presente che ci appartiene, segnali del contrario, quasi che la “cultura” che pratichiamo stia svuotandosi via via fino a diventare una cultura soltanto affermativa.
Più precisamente, una cultura che si arrocca in un dire sì oppure no, senza mezzi termini: perciò il dialogo, ogni tipo di dialogo, sia quello pubblico sia quello che avviene tra le pareti domestiche, sembra già finito ancor prima di cominciare, perché non mette in gioco nulla, si limita a confermare le premesse. È ovvio, di conseguenza, che tracimi subito nella polemica e spesso nella rissa: la discussione smette fin dall’inizio di essere tale, ciascuno rincara la sua dose – piccola che sia – di affermatività, e accade che le voci si alzino e si sovrappongano, che le parole diventino ogni volta armi di sfida, scollegate da quanto dice l’interlocutore.
Accade così che tra bocca e orecchio si introduca una sorta di blocco, che parliamo alzando sempre più la voce ma affievolendo sempre più l’udito. Se sopravvive qualcosa di simile a un ascolto, si tratta di quel poco di ascolto che riserviamo a noi stessi, posto che possiamo chiamarlo così, non certo un ascolto che riceve e accoglie quello che dicono gli altri accanto a noi.
Si sta propagando nel mondo attuale una specie di sordità sociale, cioè rivolta agli altri, che declina sempre di più nel disinteresse, in un misto tra desiderio di non udire opinioni diverse ed effettiva incapacità di ascoltare.
Sta svanendo progressivamente e drammaticamente quella virtù che chiamavamo “pazienza”: in qualunque dialogo predomina attualmente l’impazienza, il non riuscire ad attendere che l’altro si esprima, dato che crediamo di avere già capito tutto fin dalla prima parola e avvertiamo un bisogno impellente di pronunciare le nostre parole per affermare noi stessi.
Perciò preferiamo spesso mettere le cuffie e ascoltare le voci esterne quando e quanto desideriamo, come se ogni volta costruissimo un ascolto personale che possiamo interrompere a piacimento, cioè del tutto controllabile. Ma è questo l’ascolto? Difficile che ci illudiamo che si tratti di un vero ascolto, proprio perché l’ascolto chiede pazienza e coinvolgimento, non può ridursi a un ascolto tanto per ascoltare.
Ci sarebbe poi da domandarsi se l’ascolto può essere tale se avviene in solitudine, cioè senza la possibilità che un altro intervenga con parole diverse dalle nostre. Sorge immediatamente il dubbio che questo non sia un autentico ascolto, solo un’altra faccia di quella semplificazione alla quale mi riferivo all’inizio.
Infatti, accade che tendiamo a semplificare proprio perché non vogliamo ascoltare qualcosa che forse potrebbe rendere più complicato affermare la nostra opinione. Insomma, preferiremmo che non ci fosse alcun interlocutore e che nessuno potesse disturbare il nostro pensiero. Ma siamo sicuri che, messo così, si tratti davvero di qualcosa che abbia a che fare con un pensiero?
