di Sara Gandini e Paolo Bartolini
Durante la pandemia e la sua gestione controversa, abbiamo conosciuto un crollo qualitativo dell’argomentazione razionale al servizio di decisioni politiche che avevano basi scientifiche fragili.
La sensazione è stata quella di una società guidata dal pilota automatico degli interessi di pochi. Delle classi dirigenti fedeli ai diktat neoliberali hanno pensato di fronteggiare il virus, e le problematiche dovute alla fragilità strutturale del nostro servizio sanitario, a cui sono stati tagliati miliardi di euro per circa due lustri, scegliendo una postura repressiva e strizzando l’occhio agli azionisti degli agenti economici privati che, di lì a poco, avrebbero fatto una montagna di soldi (nel campo farmaceutico e in quello delle piattaforme digitali).
L’emergenza non ha scalfito minimamente la logica di fondo su cui si regge il capitalismo contemporaneo: comprimere la spesa per il pubblico, incentivare le privatizzazioni, ridurre al minimo la prevenzione e le cure diffuse sui territori, puntare quasi esclusivamente su farmaci hi-tech protetti da brevetti esclusivi.
Ora, dopo anni di proclami sulla salute traballante del nostro sistema sanitario, la situazione disastrosa è sotto gli occhi di tutti. Molti cittadini rinunciano al loro diritto alla cura. Altrettanti puntano direttamente sul privato, soprattutto per velocizzare esami che in ospedale potrebbero non essere accessibili prima di mesi o anni.
La sfiducia crescente nelle istituzioni sfocia, in altre parole, nell’abbandono dei bisogni fondamentali o nell’accettazione obtorto collo di una medicina per pochi. Che l’Italia, e non solo, sia stata un laboratorio di sperimentazione nel periodo 2020-2022 è abbastanza chiaro a chiunque. Non tanto un laboratorio, come vorrebbero alcune letture “radicali”, necessario per mettere alla prova l’ubbidienza dei cittadini rispetto alle restrizioni emergenziali. Crediamo, infatti, che il punto critico sia altrove. In assenza permanente di fondi da dedicare alla salute pubblica – oggi per l’incremento delle spese belliche e prima per le fatali politiche di austerity europee – la popolazione è stata iper-responsabilizzata e finanche colpevolizzata, in modo tale da imputare ad essa eventuali crolli del sistema sanitario nel suo complesso: “Se non ti vaccini muori, fai morire e saturi le nostre terapie intensive” (per parafrasare un noto “salvatore” assai stimato nelle alte sfere dell’establishment angloamericano ed europeo).
L’obiettivo delle politiche emergenziali, dunque, non solo ha prodotto individui docili, disposti a chiudersi a casa per intere settimane in attesa della fine di un eterno coprifuoco, ma li ha allenati a una situazione critica che tale rimarrà per molto tempo perché non vi è nessuna intenzione di correre ai ripari.
Già nel 2022 su The Lancet è uscito un articolo che cominciava a parlare di una recessione globale. Le interruzioni delle catene di approvvigionamento – secondo l’editoriale causate dalle varie emergenze, dalla pandemia di COVID-19, alla crisi climatica e ora la guerra in Ucraina – hanno innalzato il costo della vita in modo drammatico per milioni di persone in tutto il mondo.
Poiché i tassi di inflazione annuali nei paesi ad alto reddito si avvicinavano al 10%, un numero crescente di persone sarebbe stato costretto a scegliere tra nutrire i propri figli o pagare le bollette. La crisi del costo della vita, già nel 2022, aveva superato la preoccupazione per i rischi dovuti alla pandemia.
Secondo un sondaggio condotto da The Food Foundation, un adulto su sette (7·3 milioni) nel Regno Unito e 2,6 milioni di bambini non erano certi di soddisfare i loro bisogni primari, e questo accadeva nei paesi più ricchi del mondo.
L’inasprirsi delle diseguaglianze ha lasciato le persone in situazioni pericolose per la loro salute e per il loro futuro, a partire dai bambini perché la povertà durante l’infanzia è associata a un aumento significativo del rischio di mortalità precoce. L’editoriale concludeva con questa frase: “Invece di lanciare l’allarme agli economisti, i leader della sanità pubblica devono farsi avanti e parlare delle conseguenze sanitarie del non riuscire a proteggere le comunità dalle crisi che inghiottono le nazioni”. In realtà quello che sta accadendo, anche in Italia, è che gli investimenti sono sempre più indirizzati verso le spese militari. Erano 7,3 miliardi nel 2021 (cinque bilanci fa): nel quinquennio c’è stato un aumento di ben il 77%.
Stornare denari dal welfare e dalla protezione sociale, per darli alla guerra, non è la risposta dovuta a un pericolo incombente che minaccia l’Europa. Al contrario: è parte integrante della crisi senza ritorno dell’impianto ideologico neoliberale, che deve diventare sempre più autoritario quanto meno ha saputo distribuire benessere a larghi strati della popolazione.
È chiaro quindi che la frammentazione del corpo sociale cominciata nell’era pandemica – con lo scopo di impedire una revisione profonda dell’attuale società del profitto – ha danneggiato duramente la maggioranza della popolazione, indebolendo fra l’altro la fiducia nelle istituzioni. Una debacle completa, su cui riflettere, e che non possiamo considerare riduttivamente come il frutto marcio di un momento difficile. L’emergenza principale da affrontare, ora e sempre di più, è il capitalismo con le sue logiche indifferenti al bene comune.
L'articolo Meno soldi alla sanità, più spese militari: il frutto marcio degli anni pandemici proviene da Il Fatto Quotidiano.