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Dai comizi sul pene alle sparate sui migranti, la scommessa di Trump per battere Harris: ignora i consigli e parla all’America più oscura

Minacce. Insulti. Balletti. Scenari apocalittici. Donald Trump arriva alla fine di questa lunga, drammatica campagna elettorale alternando gesti bizzarri e dichiarazioni sempre più aggressive. A un comizio all’aeroporto di Latrope, Pennsylvania, il tycoon si è lanciato in un lungo monologo su Arnold Palmer, il giocatore di golf cui è dedicato l’aeroporto e di cui, davanti alla folla esterrefatta, ha magnificato le dimensioni del pene. “Quest’uomo era forte, coraggioso – ha spiegato Trump -. Quando faceva la doccia con gli altri professionisti, quelli uscivano dagli spogliatoi e dicevano, oh, mio dio, è incredibile”. Dopo essersi soffermato sugli attributi di Palmer, l’ex presidente ha attaccato Kamala Harris in modo scomposto e volgare: “Non ti sopportiamo. Sei una vicepresidente di merda”. La folla entusiasta declamava intanto proprio quella parola: shit, shit, shit.

Il rally di Latrope arriva dopo quello di Oaks, sobborgo di Philadelphia, ancora Pennsylvania. Dopo lo svenimento per il caldo di due tra il pubblico, Trump ha dichiarato chiuso il comizio e aperto le danze. Per i successivi quaranta minuti, ha ballato sulle note di James Brown, Sinead O’Connor, di Hallelujah di Leonard Cohen nella versione di Rufus Wainright (gli eredi di Cohen hanno già diffidato Trump dall’uso della canzone in campagna elettorale e Wainright si è detto “mortificato” per l’atto “blasfemo” di Trump). Ai balletti si aggiungono le minacce. In un’intervista a Fox News, Trump ha spiegato che esiste “un nemico interno” – i democratici, identificati come “il male” – che mira a provocare il caos e che dovrebbe essere gestito con l’invio della Guardia Nazionale ai seggi. Mai, prima d’ora, un candidato alla presidenza aveva chiesto l’intervento dei militari contro gli avversari politici.

Se a questo si aggiunge il rifiuto di accettare l’eventuale vittoria di Harris – al recente Forum economico di Chicago, alla domanda se riconoscerà il risultato delle elezioni, ha risposto ricordando le proteste dei democratici quando fu lui a vincere nel 2016 – il quadro è completo. Il tycoon ha deciso di percorrere gli ultimi giorni di campagna elettorale allo stesso esplosivo ritmo del 2016. La cosa è in aperto contrasto con quello che gli consigliano alcuni tra i suoi collaboratori, secondo cui quest’ultima fase di campagna dovrebbe essere caratterizzata da un tono più inclusivo e dialogante. Si tratta infatti di conquistare l’appoggio degli indipendenti e dei repubblicani moderati. Invece di sproloquiare sul “male”, sarebbe forse meglio concentrarsi sull’economia, moderare i toni sull’immigrazione, adottare un approccio più istituzionale e rassicurante.

È esattamente ciò che Trump non sta facendo. Guidato non si sa se dal suo istinto o da un calcolo ragionato, l’ex presidente gira l’America diffondendo un messaggio che non potrebbe essere più divisivo. Anche quando parla di economia, lo fa in modo esasperato, paradossale. “Se sarò presidente, imporrò dazi del 100, 200, anche del 2000 per cento”, ha spiegato al recente Forum economico di Chicago. I suoi piani parlano di tariffe doganali del 60 per cento sui beni importati dalla Cina e di un aumento dei dazi tra il 10 e il 20 per cento su quelli che arrivano dagli altri Paesi. Si tratta di una radicale trasformazione del sistema fiscale, che punta ad attenuare la tassazione su ciò che gli americani guadagnano e investono, per trasferire l’onere sui beni comprati all’estero. Trump è convinto che gli aumenti dei prezzi sui beni importati sarà assorbito dai Paesi produttori, quindi non peserà sul consumatore Usa, e che anzi molte imprese straniere sposteranno la produzione negli Stati Uniti. Molti economisti – tra questi, 16 premi Nobel e diversi istituti di ricerca – la pensano diversamente. Secondo il Peterson Institute, il rialzo delle tariffe sui beni prodotti all’estero costerà al consumatore almeno 2600 dollari in più ogni anno. Il “Committee for a Responsible Federal Budget” ha notato che i piani economici di Trump porteranno a un aumento del debito pubblico di 7500 miliardi di dollari entro il 2035.

Siamo, ovviamente, nel campo delle ipotesi e delle previsioni. Il fatto è – ed è questo a preoccupare il team repubblicano – che Trump espone anche il suo programma economico in modo paradossale, scomposto, senza dare alle proposte quel quadro di affidabilità e dignità che le misure economiche richiederebbero. Quando al Forum di Chicago il direttore di Bloomberg, John Micklethwait, ha reagito alla sparata sui dazi menzionando gli effetti negativi sul consumatore, Trump ha liquidato quei dubbi facendo notare che lui “è un ottimo uomo d’affari”. Una dinamica di questo tipo è visibile anche in tema di immigrazione. Il consiglio di diversi consulenti repubblicani è quello di moderare i toni e parlare il meno possibile di “invasione” e “deportazione”. I sondaggi sono al momento incoraggianti per i repubblicani. Uno recente del New York Times mostra che il 37 per cento degli ispanici è orientato a votare per Trump – nel 2016, circa il 28 per cento dell’elettorato latino votò per lui. Di più: il 67 per cento degli ispanici residenti negli Stati Uniti non pensa che Trump si riferisca a loro, quando parla di immigrazione fuori controllo.

Sarebbe dunque meglio non alimentare paure nella comunità ispanica. Anche qui, Trump sta però facendo esattamente il contrario. Ripete false accuse sugli immigrati che “mangiano cani e gatti”. Parla di presunte gang di migranti che avrebbero occupato le istituzioni pubbliche ad Aurora, Colorado. Spiega che da presidente applicherà l’“Alien Enemies Act” – una legge del 1798 utilizzata durante la Seconda guerra mondiale per internare nei campi le persone di origine giapponese – facendo partire la più clamorosa operazione di deportazione della storia americana – “caccerò tra i 15 e i 20 milioni di illegali”, ha detto. I suoi toni sono apocalittici. Oltre 13mila illegali già condannati per omicidio girerebbero per gli Stati Uniti di Joe Biden – altro dato falso: 13mila sono gli stranieri condannati per omicidio negli ultimi 40 anni. Banalmente, possono sì essere negli Stati Uniti, ma in carcere. I “15, 16 milioni di migranti”, che questa amministrazione avrebbe fatto entrare illegalmente avranno secondo Trump effetti disastrosi: “Avvelenano il sangue dell’America. Arrivano dall’Africa, dall’Asia, da tutto il mondo”. La conclusione è senza appello. “Quello che Biden e Harris hanno fatto all’America non ha scuse. Le loro mani sono sporche di sangue”.

Questo approccio è inviso a molti dell’entourage di Trump. A molti, non a tutti. Stephen Miller, tra i consiglieri più ascoltati, appoggia per esempio politiche così restrittive. Alla fine è però Trump stesso ad avere scelto questa strada. A un recente comizio ad Atlanta, dopo aver mostrato un video in cui si dettagliano i “crimini efferati” degli illegali, l’ex presidente si è rivolto alla folla spiegando che “questo è il tema numero 1 delle elezioni”. Trump è convinto che, proprio come nel 2016, sarà la paura dei migranti, lo spettro dell’“invasione”, a fargli vincere le elezioni. “L’economia è noiosa”, avrebbe detto ai suoi collaboratori. L’immigrazione è tutt’altro che “noiosa”. Accende timori. Suscita reazioni estreme. Questo, oggi come nel 2016, Trump cerca. Questo il suo istinto gli suggerisce. Non è escluso che abbia ancora una volta ragione. Una ricerca di Brookings Institution/PRRI rivela che il 34 per cento degli americani è d’accordo con l’espressione secondo cui gli illegali “avvelenano il sangue del Paese”. E a giudicare dall’entusiasmo con cui gli imprenditori hanno accolto le sue dichiarazioni al Forum di Chicago, non sembra che le obiezioni ragionate dei Nobel dell’economia abbiano intaccato le proposte apparentemente assurde sui dazi. Trump conosce del resto come pochi quello che si muove nel profondo dell’America. Come pochi, ha dimostrato di saperne interpretare il lato più oscuro, spesso inconfessato. La sua è una scommessa rischiosa. Come già nel 2016, potrebbe vincerla.

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