di Alessandro Volpi*
Il discorso sulle linee guida del neo ministro della Cultura Alessandro Giuli, almeno nella prima parte (circa 15 minuti), per sua stessa amissione la “più teoretica”, sembra essere risultato ai più incomprensibile. Se questo è normale per una persona digiuna di filosofia e di politica, in realtà stupiscono – ma non troppo – i titoli dei giornali sulle presunte “supercazzole” del ministro, sull’assenza di senso del suo discorso. Come ogni discorso chiaramente ha elementi di ambiguità semantica, mostra tratti di incoerenza, non è immediatamente decodificabile in senso univoco come lo è un’equazione matematica. Tuttavia sarebbe stato sufficiente chiedere ad un filosofo politico – trovando così utilità ad una categoria che spesso la nostra società si chiede perché dovrebbe pagarla, e infatti non la paga – per capire cosa Giuli ha detto.
Pochi giorni fa il ministro ha dato il suo ultimo esame di una laurea triennale in filosofia, e in effetti il linguaggio utilizzato un po’ ricorda quello un po’ naïve dello studente troppo sicuro di sé a causa di qualche trenta e lode di troppo. Tuttavia questa caricatura è una sottovalutazione del Ministro, scaltro e intelligente giornalista e uomo di cultura – almeno nel senso della sua capacità di muoversi negli ambienti della cultura, qualcuno direbbe più salottiero che intellettuale. Di sicuro più intellettuale organizzatore-stratega che studioso nel senso tradizionale. Dietro questo linguaggio un po’ goffamente complesso in realtà si può facilmente intendere un discorso che ha una sua coerenza argomentativa (non assoluta, ovviamente) e un suo significato ideologico-strategico. È su questo aspetto che l’interpretazione si fa più complessa. Capire il discorso di Giuli è relativamente facile, capirne la collocazione ideologica e il senso strategico è più complesso.
Questo proprio grazie a quel lavoro di cui egli è stato un interprete, di una destra che con spregiudicatezza ha saputo appropriarsi di figure e concetti che almeno in teoria le erano estranei. E qui sta tutta la difficoltà nel decifrare il discorso di Giuli, una complessità che viene dal come e dove si collocano certi concetti e figure di riferimento, dal loro valore posizionale e relazionale. Detto in altri termini, la destra è stata molto abile nel costruire un discorso che è riuscito a uscire dal proprio perimetro, ad evolversi, e così però anche a risignificare certi elementi ideologici e culturali. Trattare questa come mera dissimulazione sarebbe una volgare lettura figlia di un’idea rozza di ideologia: è sostenere l’idea che si possa scoprire la verità che sta dietro a quello che gli altri dicono (perché sono sempre gli altri ad essere ideologici) e coglierne una verità. Comprendere invece la complessa articolazione di un pensiero che si va contaminando ed evolvendo è al contrario un’operazione interessante ma difficile.
Per questo, nel breve spazio di un post come questo, e a partire dai miei limiti personali (non sono un esperto del Giuli-pensiero né dell’evoluzione delle ideologie di destra), possiamo cercare di decifrare alcuni nuclei fondamentali del discorso del Ministro, ponendo solo come problema aperto la vero questione complessa: ovvero quella della possibile interpretazione situata e strategica delle sue parole.
Iniziamo dalla parte più ridicolizzata del discorso di Giuli che è in realtà la più semplice: la cultura non può ignorare le sfide del presente; la più importante di queste è quella di uno sviluppo tecnologico molto rapido che trasforma anche il modo di pensare e di esperire il mondo. E si chiede: quale approccio dobbiamo avere noi? E si risponde: non dobbiamo né pensare che questo sviluppo porti ad una catastrofe, né essere ingenuamente entusiasti, come se non creasse problemi. Al contrario l’elemento decisivo per Giuli è porre al centro una concezione che ha definito “umanesimo integrale”, cioè – in parole povere – mettere la tecnica al servizio dell’uomo e non farci dominare.
Fin qui molto semplice. Quello che rimane da capire è appunto il senso politico di questo discorso, che è strutturalmente ambiguo. Infatti questo può essere un discorso molto moderato, sicuramente anti-marxista, ma non di certo fascista. Umanesimo integrale è per esempio l’opera di Jacques Maritain, un filosofo cattolico teorico del personalismo, una filosofia lontana e anzi pensata in opposizione alle varie filosofie dei fascismi (e del marxismo). E il discorso che Giuli fa sulla necessità di mettere l’umano al centro dei processo tecnologici può essere coerente con questa impostazione.
D’altro canto, però, se cerchiamo di riconnetterci all’ideologia di provenienza del ministro, potremmo pensare alla tradizionale postura dei fascismi europei (soprattutto del nazismo, ma anche del fascismo italiano, meno del franchismo), a metà fra l’esaltazione della tecnica come strumento di dominio e la critica di questa in una prospettiva passatista e conservatrice. Le parole di Giuli non fanno pensare a questo orizzonte di riferimento, la sua storia sì: lasciamo pure la questione aperta.
In connessione con questo, possiamo pensare l’esaltazione che il Ministro ha fatto di una tradizione nazionale di genio umanistico e scientifico che deve essere rivalutata nella sua unità. Il riferimento al rinascimento italiano e di lì verso la contemporaneità fino a due nomi che sono citati lungamente per definire la sua visione del rapporto fra cultura, società e impresa, ovvero l’imprenditore Adriano Olivetti, e fra estetica, paesaggio e spazio urbano, ovvero l’architetto Paolo Portoghesi. Anche qui la lettura è semplice ma politicamente può essere ambigua. Infatti l’idea che Giuli esprime è persino banale: un’integrazione fra impresa e cultura in funzione sociale (ma ribadisce, non comunista) verso comunità concrete sul modello proposto da Olivetti. L’imprenditore d’Ivrea infatti è stato un modello di una via alternativa fra la rivoluzione comunista e un capitalismo disumanizzante e alienante, mettendo al centro appunto un’idea umanista e comunitaria di integrazione fra privato e il comune. Così dall’altro lato Portoghesi viene esaltato per una sua concezione estetica volta alla valorizzazione di elementi tradizionali, però con uno sguardo innovativo che superasse la distinzione fra centro e periferia.
Qui il discorso di Giuli è di nuovo abbastanza chiaro e coerente ma potenzialmente ambiguo. Infatti la valorizzazione del genius loci che egli rivendica può essere legata a una tradizione di sinistra di critica della modernità, così come può essere riconnesso all’idea etno-nazionalista delle piccole patrie. La via alternativa tra capitalismo e comunismo può essere quella delle comunità d’impresa di Olivetti, oppure la terza via corporativista del fascismo. Di nuovo, al di là di quello che potrebbe essere considerato un eccesso di nazionalismo nel richiamare una tradizione nazionale della cultura (più gentiliana che evoliana, se vogliamo rimanere nelle coordinate delle culture fasciste), Giuli di certo non sembra propendere di certo per una visione sciovinista della cultura. Sarà questa solo dissimulazione? Un tentativo di far entrare, con un discorso che sta nei perimetri del dicibile, concetti che invece appartengono a una tradizione antidemocratica? Qui si apre di nuovo quella complessità.
Per concludere insomma nel discorso di Giuli, al di là di un linguaggio un po’ goffamente filosofeggiante, non c’è niente di indecifrabile ad un tentativo di comprensione letterale: i riferimenti sono abbastanza chiari, e in questo spazio ho solo potuto citarne alcuni. Quello che viene messo in scena piuttosto è un sottile – e questo ci fa pensare che il Ministro sia più scaltro di quanto i suoi nemici vogliano pensare – gioco di ridefinizione culturale delle destre post-fasciste. Una sfida egemonica lanciata nella società italiana, che va presa sul serio e studiata.
*borsista di ricerca in filosofia politica e giuridica presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e redattore della rivista La Fionda
L'articolo Il ministro Giuli alla Camera non ha parlato in modo incomprensibile. Caso mai ambiguo proviene da Il Fatto Quotidiano.