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I giudici in malafede e il caso Khelif non nascondono la verità: la spedizione della boxe italiana a Parigi è stata un disastro

Con la sconfitta di ieri ai quarti di finale del supermassimo Diego Lenzi, si conclude l’avventura della boxe italiana ai Giochi olimpici di Parigi. Nessuno degli otto partecipanti al torneo ha raggiunto le semifinali che tra qualche giorno avranno inizio al Roland Garros. Considerando che alla vigilia si puntava a due ori con i favoriti nella rispettiva categoria di peso Aziz Abbes Mouhiidine e Irma Testa e che gli altri erano tutti degli outsider a caccia di una medaglia, questa spedizione è stata un fallimento, almeno sportivo. L’Italia del direttore tecnico Emanuele Renzini è sembrata l’Italia calcistica di Spalletti agli ultimi Europei, con l’aggravvante che addetti ai lavori e appassionati di pugilato avevano posto grandi speranze sulla spedizione azzurra. A posteriori già la prima giornata di gare doveva far capire che questa Olimpiade per il pugilato italiano sarebbe stata infausta. Sono infatti usciti subito Sirine Charaabi e Salvatore Cavallaro, quest’ultimo dimostrando anche segni di nervosismo al momento del verdetto dei giudici, che in effetti il sabato come nei giorni successivi non sono venuti in soccorso dell’Italia, anzi.

Dopo il passaggio del turno di una brava Alessia Mesiano che però sarebbe uscita a quello successivo, alla domenica è toccato ad Abbes, la nostra stella, un talento puro che ora passerà professionista e sul quale bisogna puntare, magari se saprà modificare la sua boxe. Ma anche Abbes è stato sconfitto, dall’uzbeko Lazizbek Mullojonov e da un verdetto dei giudici che non gli rende affatto giustizia. Meritava sì di vincere contro un pugile forte, con già apparizioni nel professionismo, dove ha tutte vittorie per ko. Ma non è stato un Abbes particolarmente brillante, ferito vicino all’occhio da una testata involontaria dell’avversario al primo round. Anche atleticamente nella ripresa finale (che ormai però era compromessa da quanto avevano visto i giudici nelle prime due) non è apparso il miglior Mouhiidine. Una delusione enorme che forse ha trascinato nella negatività tutti i compagni. A seguire pure Giordana Sorrentino è stata sconfitta.

Quando è il momento di Irma Testa, altra stella del firmamento italiano, campionessa mondiale in carica e medaglia di bronzo all’ultima olimpiade, si è capito che più di qualcosa non va. Irma non è stata sul ring parigino bellissima come al solito, uscendo al primo turno, anche qui con polemiche perché di poco ma la ragazza di Torre Annunziata il match l’avrebbe meritato di vincere. Però anche lei ha viaggiato ben al di sotto delle proprie possibilità, anche a livello fisico. Le sconfitte di Abbes e Irma sono state una batosta incredibile per il pugilato italiano dilettantistico e in prospettiva anche per il professionismo perché il passaggio a Pro di due campioni olimpici avrebbe potuto cambiare le sorti di un movimento, quello Pro, che è in lenta ripresa ma che avrebbe avuto un gran bisogno di una scossa del genere. Una specie di effetto Sinner nel tennis.

Lo ripetiamo Abbes e Irma avevano entrambi vinto il loro match. Ma i cinque giudici a bordo ring hanno visto tutt’altro. Il problema legato ai giudici si conosceva. L’International Boxing Association ha squalificato 36 tra arbitri e giudici dopo gli scandali dei Giochi di Rio del 2016 ed evidentemente non è stata trovata ancora la soluzione. È anche per questo che il pugilato, o almeno ad oggi la situazione è questa, non sarà presente come sport tra quattro anni a Los Angeles. La storia della boxe alle Olimpiadi è tuttavia piena di situazioni di questo tipo, anche peggiori e antecedenti a Rio. Basta ricordare cosa successe a Cammarelle a Londra, a Nardiello a Seul e Musone negli Stati Uniti, sempre contro pugili di casa. A Parigi Abbes invece ha perso con un uzbeko e Irma con una cinese. Insomma la colpa non è stata solo degli altri. La condizione fisica non è sembrata perfetta. L’approccio al torneo non è stato affatto dei migliori, sia Abbes che Irma hanno combattuto al di sotto delle proprie possibilità e senza dare continuità in tutti e tre i round. Nino Benvenuti, uno che qualcosa ha vinto, ha sempre sostenuto che il match d’esordio in un torneo così importante è fondamentale anche e soprattutto a livello psicologico.

Il cartellino dei giudici è sembrato spesso incomprensibile, però sorge il dubbio che nella lettura del match si stia privilegiando una boxe diversa da quella fatta dai nostri ragazzi: più aggressiva, più all’attacco, più fisica, forse più simile a quella del professionismo (tra l’altro qui a Parigi ci sono parecchi pugili Pro tornati indietro al dilettantismo per partecipare ai Giochi). È sembrato inoltre che dall’angolo, Renzini affiancato anche da una manciata di maestri parenti dei nostri atleti, non abbiano mai saputo cambiare tatticamente un match quando questo si stava mettendo male. Una nota positiva riguarda invece il meno esperto della spedizione, Diego Lenzi, che a luci spente ha passato il primo turno, perdendo ieri meritamente ai quarti ma mostrando buone cose soprattutto per un futuro da professionista. Sfrontato, il ragazzo non ha avuto paura di colpire. Capitolo a parte quello di Angela Carini, il suo esordio contro l’algerina Imane Khelif è durato meno di un minuto e due pugni presi dall’avversaria, che al recente mondiale era stata squalificata per eccesso di testosterone. La vigilia era stata funestata da polemiche per via del fatto che si era sparsa la voce che la ragazza fosse nata uomo. L’algerina in passato aveva già combattuto con due italiane e nel suo record ci sono anche alcune sconfitte.

Ma ormai la situazione in Italia si era surriscaldata, non solo nei social ma anche a livello politico. E la Carini si è ritirata quasi subito, probabilmente non reggendo la pressione. Una gestione dell’atleta non irreprensibile: se si voleva protestare per una eventuale disparità sul ring lo si doveva fare prima di salire sul quadrato. Diversamente sembravano esserci le possibilità per proseguire il match. Peccato perché Angela è un’atleta forte, un’altra sui cui si erano puntate le speranze per una semifinale che nella boxe olimpica significa medaglia. Tre anni fa a Tokyo non si era qualificato per l’Italia nemmeno un uomo, ma la spedizione azzurra era riuscita a portare a casa una medaglia di bronzo con Irma Testa. A Rio nel 2016 nessuno era riuscito ad arrivare in semifinale, un fallimento rispetto alle tre medaglie di Londra 2012 e Pechino 2008. Comunque lontanissimi i tempi in cui conquistavamo cinque medaglie come a Los Angeles 1984, Tokyo 1964 e addirittura sette nell’Olimpiade di Roma 1960.

Adesso è il momento di fare una riflessione in seno alla Federazione. Il presidente Flavio D’Ambrosi, qualche ora dopo il match perso da Mouhiidine, aveva lasciato intendere che, deluso dal fatto che il Cio non tutelasse i pugili con questi giudici, non si sarebbe probabilmente più ricandidato. Forse non è neanche il cambio ai vertici la soluzione (quale sarebbe l’alternativa?), ma una piccola rivoluzione va fatta. Davvero sembra che il resto del mondo a questi Giochi stia combattendo una boxe diversa. Magari l’inserimento nello staff di maestri che vengono da fuori, dagli Stati Uniti o da Cuba per esempio, potrebbe aiutare. In questo momento ogni idea deve essere valutata. Anche e soprattutto quella di portare in federazione maestri italiani che abbiano saputo in questi anni costruire un pugile professionista da zero, partendo dal mettere il ragazzino in guardia davanti allo specchio il primo giorno fino a portarlo a combattere oggi in palcoscenici prestigiosi. Se si gira per le palestre italiane di questi profili ce ne sono, anche tra la generazione di trentaquarantenni.

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