Se è vero che oggi 28 luglio, alla Bercy Arena di Parigi, il pubblico mondiale della ginnastica (e non solo) non ha aspettato altro che lei, Simone Biles, e le sue evoluzioni, allora è vero anche l’inverso: e cioè che Biles non ha aspettato altro che muovere il primo passo su quella pedana olimpica per sciogliere un nodo che da tre anni la costringe. Riavvolgiamo il filo della memoria: è il 27 luglio 2021, e durante la finale a squadre femminile di ginnastica artistica dei Giochi di Tokyo, Biles commette un errore al volteggio. All’apparenza, uno sbaglio anodino: invece che due avvitamenti e mezzo nella parte aerea, ne esegue solo uno e mezzo. Nel suo body luccicante, sorride come sempre all’arrivo dal salto per il saluto ai giudici. Tuttavia, qualcosa non va. Parlotta subito con gli allenatori Laurent e Cécile Landi, e in pochi secondi, fa lo zaino e va via.
“Provavo così tanta vergogna”, racconta lei stessa nella docuserie in onda su Netflix Simone Biles Rising (diretta da Katie Walsh). Prende il titolo da un tatuaggio che, all’altezza della clavicola sinistra, Biles si è fatta l’anno scorso: “And still I rise” da un verso della poeta afroamericana Maya Angelou (1928-2014), che merita di essere ricordato: “Puoi colpirmi con le tue parole,/ puoi tagliarmi con i tuoi occhi,/ puoi uccidermi con il tuo odio,/ ma ancora, come l’aria, mi solleverò”. Il legame con Angelou non è casuale: entrambe si sono salvate da un’infanzia difficile e vengono cresciute dai nonni. Nata a Columbus nel 1997, Biles è terza di quattro fratelli e ha solo 3 anni quando vengono tutti allontanati dalla madre tossicodipendente. In orfanotrofio ci passano più di 2 anni prima che nel 2003 il nonno riesca ad adottare lei e la sorella, mentre alcuni prozii adottano i due fratelli. Come per Angelou la parola, la ginnastica – iniziata prestissimo – permette a Biles di sollevarsi sopra le cose della vita.
Dopo quell’uscita di scena tre anni fa a Tokyo, Simone smette di allenarsi, comunicando di volersi prendere una pausa (che poi è diventato il suo adagio nello spot di una bibita energizzante: “Pause is power”). Lei, la ginnasta più premiata della storia (le medaglie d’oro ottenute ai Mondiali dal 2013 sono ben 23; per non parlare dei 4 ori vinti alle Olimpiadi di Rio2016); lei, dunque, abbandona. Cos’era successo, però? Subito, Biles li ha chiamati “twesties”, una specie di blocco mentale che impedisce al cervello di comunicare col corpo e ha come conseguenza quella di smarrirsi nel bel mezzo di un’acrobazia. Lo spiegò lei stessa sui social, a commento di un video in cui cadeva dalle parallele asimmetriche: “Ti perdi nell’aria, non sai dove ti trovi, non sai quante volte stai girando e non riesci a controllarlo. Non distingui l’alto dal basso. È estremamente pericoloso. Puoi rischiare di morire. E io non voglio”.
Ma questa è solo la parte al sole del problema, quella emersa, che ne ha invece una meno illuminata, più profonda. Essere una campionessa nell’immaginario collettivo rischia di non lasciare scampo: le aspettative ti divorano. Soprattutto, divorano la tua vita: quanto resta, infatti, di Simone se la Biles ruba tutto lo spazio? A molti, il ritiro giapponese di Biles quel giorno ricordò una vicenda simile: Olimpiadi di Atlanta 1996, la ginnasta americana Kerry Strug rimedia un grave infortunio alla caviglia sinistra, ma decide di eseguire il volteggio per la finale a squadre. Il suo atterraggio su un piede solo è definito “il miracolo di Atlanta” e fa guadagnare agli Usa la medaglia d’oro, mentre lei esce in barella, acclamata come un’eroina. Aureolato a esempio di resilienza, rischiare la vita è davvero un modello da seguire? Simone Biles sconfessa tale narrazione. Abbandona la ginnastica per due anni per prendersi cura di sé. In palestra ci va un paio di volte al mese, ma non sale su nessun attrezzo. Inizia una terapia psicologica, torna ad uscire con gli amici, s’innamora e si sposa (con Jonathan Owens, giocatore di football). Alla gloria eterna, quindi, Simone ha preferito la vita, nonostante le piovessero addosso le più feroci critiche: codarda, perdente, ingrata. Tra l’altro, non solo sui social, pure dalla stampa.
E invece, proprio per aver ricordato che bisogna salvaguardare la salute mentale al fine di godersi il proprio sport, mostrando che saltare una grande competizione per concentrarsi su di sé prova quanto forte sei come persona e atleta. Oltre che per essere stata in prima linea nella vicenda giuridica contro Larry Nassar – il medico della federazione americana di ginnastica, colpevole di aver abusato sessualmente di più di 260 giovanissime atlete in 19 anni di consulenza –, il Time l’ha incoronata “Atleta dell’anno 2021”. Ora è tornata! Già l’anno scorso in effetti. Nel settembre 2023, per il Mondiale di Anversa, dove conquista ben quattro medaglie d’oro. Ma quello che aspettava è oggi. Oggi inizia lo spettacolo di Simone Biles a Parigi24. Oggi scriverà come continua la sua storia.
L'articolo Il ritorno di Simone Biles: cosa vuol dire la sfida olimpica per la ginnasta che ha lottato in difesa della sua salute mentale proviene da Il Fatto Quotidiano.