Notte del 9 ottobre 1963, ore 22:39: il monte Toc frana nel bacino idroelettrico del torrente Vajont, 260 milioni di metri cubi d’acqua tracimano e ingoiano la valle che ha lo stesso nome dell’affluente del Piave. Da allora Vajont è diventato anche il nome di una tragedia italiana: quasi 2mila persone a Longarone (Belluno), Erto e Casso (Pordenone) diventano, divorate da quell’abisso liquido, solo macerie e silenzio. Oltre 60 anni dopo, il Senato italiano ha eliminato la parola “incuria” dalla legge in memoria della catastrofe del Vajont per decisione unanime della commissione Affari Costituzionali e in quel dettaglio lessicale c’è un atto di giustizia per quei morti a lungo disconosciuti: si riconosce che non accadde per negligenza, ma per responsabilità. Allora, dopo la prima ondata d’acqua che le vittime dovettero affrontare, la seconda fu quella dell’indifferenza: prima furono seppelliti da fango e poi da parole sbagliate. Si attende il nulla osta definitivo della Camera prima del prossimo 9 ottobre, quando si potrà celebrare un anniversario della tragedia diverso dagli altri. Con un riscatto semantico, ma anche simbolico.
Aveva vantato fino a quel momento la grandiosità del progetto Vajont la Sade (Società adriatica di Elettricità, ente gestore dell’opera fino alla nazionalizzazione), che nascose il rischio idrogeologico per sfruttare il serbatoio di bacini e fiumi che scorrevano tra i picchi di Friuli e Veneto. Per pompare l’oro bianco, l’acqua da trasformare in energia, si sottovalutarono volontariamente smottamenti e crepe tra le alture. Tra la politica predatoria dell’azienda e l’indolenza di chi doveva indagare vennero minimizzati i pericoli fino ad occultarli. E nel 1963, quando l’acqua esonda dalla diga che resta in piedi, la versione riportata è quella della catastrofe naturale imprevedibile. Solo una voce non si allinea al coro mediatico dell’epoca, che non riserva nemmeno un rigo alla storia delle lotte dei comitati locali che si erano opposti agli espropri forzosi delle case e delle terre, per evitare la costruzione più vertiginosa, avanguardistica e alta dell’epoca. Solo una penna continua a scrivere che la tragedia era evitabile: è quella di Tina Merlin.
La giornalista bellunese che si oppone alle verità dei Bocca e dei Buzzati è nata figlia di agricoltori della zona, è cresciuta zappando dopo le lezioni a scuola. Diventerà poi guerriera in bicicletta – staffetta partigiana – ma anche “serva”, una parola che usa lei stessa quando descrive le sue esperienze da cameriera a Milano nelle case dei ricchi. La rabbia sociale che alimenta il suo dovere d’opposizione per la giustizia collettiva la usa soprattutto quando il Vajont diventa un’enorme fossa comune e lei è un’inviata molto speciale, ma precaria, dell’Unità. “Oggi tuttavia non si può soltanto piangere, è tempo di imparare qualcosa” lo scrisse il 10 ottobre, un giorno dopo il massacro che aveva previsto molto prima degli altri la corrispondente della Pagina della donna del quotidiano comunista.
Già nella penultima ora della storia, avvisava che sarebbe arrivata presto l’ultima: Merlin ne scriveva da prima che il potere, dall’alto, nascondesse le criticità della diga. Prima di diventare voce della memoria delle comunità spezzate di quelle montagne, ne era stata quella di denuncia. Sempre accompagnata dall’ambizione di sottrarre quella storia all’oblio, ribadiva che per il profitto di pochi era stata tolta la vita a molti. Da sola, prima della strage e quasi da sola dopo, continuò a documentare le conseguenze dell’apocalisse artificiale, creata a tavolino. “La Sade spadroneggia ma i montanari si difendono” diceva uno dei titoli dei suoi articoli finché l’azienda non la denunciò per aver “turbato l’ordine pubblico” diffondendo “notizie false” su una catastrofe ambientale che ancora oggi viene ricordata sempre con gli stessi due aggettivi (italiana ed evitabile). Da quel processo Merlin fu assolta ma le rimase appiccicato addosso quel marchio vacuo di donna-contro, affibbiato spesso a chi non segue le stesse orme lasciate dagli altri lungo il percorso lavorativo. Infatti la partigiana delle parole ci metterà vent’anni esatti a trovare un editore per il suo libro Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont: il suo j’accuse fu pubblicato solo nel 1983.
Adesso, come la diga, anche la storia è tracimata fino a qui, oltre mezzo secolo dopo. Diventata patrimonio della memoria Unesco col suo archivio processuale (una prima Commissione d’inchiesta individuò le responsabilità dell’azienda, poi un’altra, la successiva, smentì), la tragedia del Vajont nel 2008 è stata definita dall’Onu “il primo dei 10 eventi disastrosi causati dalla scarsa comprensione delle scienze della terra”. Quattro minuti, 61 anni: tanto veloce fu la frana quanto lenta è stata l’ammissione della verità, che adesso arriva con una vittoria giuridica, che addita responsabilità precise. Giustizia storica la riportano le parole e sono parole che per prima pronunciò Merlin: non è stata la natura, è stato l’uomo.
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