di Federico Anghelé (direttore di The Good Lobby) e Nicola Pietrantoni (avvocato penalista)
Il nuovo traffico di influenze illecite, appena approvato, rischia di indebolire la lotta contro la corruzione. La fattispecie, infatti, è stata eccessivamente ridimensionata – in contrasto con l’orientamento europeo e internazionale proprio in tema di lotta alla corruzione – mantenendo però quel profilo di indeterminatezza che la stessa Corte di Cassazione ha più volte stigmatizzato negli ultimi anni, con l’invito al legislatore di correre ai ripari anche attraverso la regolamentazione extrapenale dell’attività di lobbying.
Il punto è proprio questo: senza una vera e propria legge che disciplini ruolo e ambito di operatività dei cosiddetti portatori di interessi, ogni eventuale formulazione di questo delitto difficilmente potrà descrivere, con sufficiente precisione, il rapporto patologico che può instaurarsi tra il mediatore-trafficante di influenze, il soggetto interessato ad alterare l’attività della Pubblica amministrazione e il pubblico funzionario che si presterebbe a realizzare l’accordo illecito.
Il nostro Paese aspetta una legge sul lobbying dagli anni 70 – decennio a cui datano i primi tentativi di regolamentazione – e, dopo oltre 100 tentativi andati a vuoto e una proposta di legge approvata dalla Camera nella scorsa legislatura, siamo ancora privi di una cornice normativa che definisca i confini della rappresentanza di interessi. Attività non solo legittima, ma addirittura essenziale in una democrazia complessa in cui i decisori pubblici non potrebbero compiere scelte politiche senza alimentarsi di quei dati e informazioni forniti dai molteplici portatori di interessi (siano essi rappresentanti dei settori economici, delle professioni, ma anche di organizzazioni del terzo settore e dei movimenti sociali). La recente indagine che ha coinvolto i vertici della Regione Liguria avrebbe dovuto accelerare la presentazione di una proposta di legge sul lobbying, della quale si sono invece perse le tracce: il presidente della Commissione Affari costituzionali della Camera Nazario Pagano aveva infatti assicurato che il testo sarebbe stato presentato entro il mese di aprile.
Oggi ci troviamo nella paradossale situazione in cui invece di definire finalmente i contorni della legittima attività di rappresentanza di interessi, si interviene – ancora una volta – sulla fattispecie incriminatrice, con l’illusione di rendere più chiare e tassative le condotte di rilievo penale.
Nella relazione illustrativa al Ddl Nordio, infatti, il legislatore ha manifestato la volontà – astrattamente, condivisibile – di voler meglio precisare alcuni elementi del reato, tenendo conto dei rilievi mossi dalla dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità: tra gli interventi più significativi, il nuovo articolo 346-bis del codice penale prevede che l’utilità corrisposta o promessa al mediatore (o ad altri) per remunerare il pubblico funzionario debba avere un significato economico (prima, c’era la più generica indicazione “denaro o altra utilità”).
L’atto contrario ai doveri d’ufficio compiuto dal pubblico agente, invece, deve integrare, a sua volta, un reato dal quale possa derivare un vantaggio indebito per il committente (nella previgente formulazione, era sufficiente il solo atto contrario ai doveri d’ufficio). Il nuovo perimetro del traffico di influenze illecite, a ben vedere, esclude però la punibilità di una serie di condotte che possono essere anche prodromiche o comunque sintomatiche di rapporti lato sensu corruttivi.
Alcune dinamiche patologiche tra il privato e la Pubblica amministrazione, infatti, sfuggiranno all’applicazione della norma, non costituendo più reato: pensiamo, ad esempio, a quei favori concessi o promessi privi di un obiettivo valore economico (ad esempio, favori sessuali, vantaggi di vario tipo in ambito politico, raccomandazioni per sé o per un familiare senza immediate contropartite in denaro), oppure, a quelle situazioni nelle quali il funzionario viene indotto a compiere un atto contrario ai propri doveri d’ufficio che non costituisce reato ma un illecito amministrativo che altera comunque il buon andamento della pubblica amministrazione (ad esempio, il pubblico ufficiale che gestisce, personalmente e in modo non imparziale, una pratica edilizia che sarebbe di competenza di un altro ufficio). Infine, se l’atto contrario ai doveri d’ufficio dovesse integrare il reato di abuso d’ufficio (situazione non infrequente), quel traffico di influenze illecite non sarebbe punibile per l’abrogazione del delitto ex art. 323, c.p. da parte dello stesso Ddl Nordio.
Ci auguriamo ora che il legislatore dimostri la stessa tenacia che lo ha portato ad approvare una controversa riforma della giustizia per tracciare finalmente i confini dell’attività di rappresentanza di interessi. Una legge chiara sul lobbying sarebbe non solo un valido strumento anticorruzione, ma anche l’occasione per rendere più trasparenti e inclusivi i processi decisionali. Con il sicuro vantaggio di aumentare la fiducia verso le istituzioni.
L'articolo Con la riforma Nordio e senza regole sulle lobby, sarà difficile punire le influenze illecite nella Pa proviene da Il Fatto Quotidiano.