di Lorenzo Lazzeri
L’arte, quando incontra il dolore, non rimane mai neutra e Han Kang, autrice sudcoreana insignita oggi del Premio Nobel per la letteratura, incarna questa verità in ogni sua opera. La motivazione della giuria del Nobel parla di una “prosa poetica intensa che affronta i traumi storici e svela la fragilità della vita umana”, parole che sintetizzano perfettamente la traiettoria di una scrittrice capace di attraversare le ombre più oscure dell’esistenza con una lucidità che sfida e scuote.
Nata a Gwangju nel 1970, Han Kang non ha mai potuto eludere la storia della sua città natale, teatro di uno dei più violenti massacri della Corea del Sud moderna, la rivolta del 1980, durante la quale l’esercito represse brutalmente la popolazione civile. Questo evento è centrale in Human Acts, romanzo che non si limita a raccontare, ma trasforma la violenza in un atto di testimonianza letteraria, in cui la sofferenza individuale si riverbera nella memoria collettiva. La carne martoriata dei protagonisti diventa così metafora di un popolo ferito, in cui il dolore non è mai circoscritto al passato, ma continua a irradiarsi nei corpi e nelle menti delle generazioni successive.
La narrativa di Han Kang è una sfida alla convenzione. Non si piega mai a narrazioni facili, né cerca la compassione del lettore; al contrario, la sua scrittura è intrisa di una bellezza che si sviluppa proprio attraverso il dolore, una bellezza che emerge da un linguaggio che sa essere tanto poetico quanto crudo. Non è una sorpresa, dunque, che il suo nome sia stato associato con opere di forte impatto emotivo e intellettuale come The Vegetarian, che nel 2016 le valse il Man Booker International Prize e che l’ha fatta conoscere al pubblico internazionale. In questo romanzo, la decisione della protagonista di smettere di mangiare carne diventa un atto di ribellione, non solo contro le regole alimentari, ma contro i vincoli sociali e patriarcali che cercano di contenere e definire il corpo femminile.
La scrittura di Han Kang, però, non si accontenta mai della superficie e nella già menzionata opera, così come in Human Acts, è evidente il suo costante tentativo di forzare i confini tra corpo e spirito, tra identità personale e destino collettivo. Attraverso i suoi personaggi, fragili e spesso marginalizzati, talvolta sull’orlo della disintegrazione psicologica. Han Kang offre una riflessione sulla condizione umana che non concede alcuno spazio al sentimentalismo; eppure, paradossalmente, proprio in questa negazione dell’eufemismo si trova la profonda umanità della sua opera.
Il Nobel riconosce oggi una scrittrice che ha saputo dare voce non solo alle vittime dimenticate della storia coreana, ma anche a tutte quelle vite che, schiacciate dalla violenza e dalla repressione, hanno trovato nel silenzio l’unica forma di resistenza. La sua prosa non è un rifugio, ma un campo di battaglia, in cui ogni parola è scelta con cura per amplificare il grido muto di chi è stato messo a tacere ed in questo, Han Kang si inserisce nella grande tradizione degli autori che utilizzano la letteratura come strumento di denuncia e memoria.
Eppure, la sua non è solo una letteratura di impegno storico o politico. Con The White Book, uno dei suoi lavori più recenti, l’autrice si allontana dalla sfera pubblica per entrare in quella più intima del lutto personale e ispirata dalla morte della sorella maggiore poco dopo la nascita, è un delicato e profondo dialogo con la perdita, un tentativo di comprendere ciò che resta quando una vita non ha nemmeno avuto il tempo di cominciare. Qui, il bianco del titolo diventa non solo il colore della morte e del lutto, ma anche quello della rinascita, della possibilità di guarigione attraverso l’atto stesso di ricordare.
Il riconoscimento del Nobel a Han Kang arriva in un momento in cui i temi del trauma e della memoria sono più che mai attuali e il mondo letterario oggi celebra una voce che ha saputo parlare a nome di chi non può più farlo. Le sue storie sono testimonianze vive, scomode, ma necessarie; sono esplorazioni di quella fragilità umana che la sua penna ha saputo rendere universale, pur partendo dal particolare, dal dolore nascosto e dimenticato e ricordandoci che non possiamo sfuggire alla storia e che forse, attraverso la letteratura, oggi possiamo almeno iniziare a comprenderla e comprendere noi stessi.
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