di Gabriele Bisconti
Il calcio si sta sgretolando, giorno dopo giorno, appannaggio di un business che appare di difficile sostenibilità economica. Ciò che risulta chiaro, però, è che cercare la soluzione nell’aumento delle partite, facendo finta di non vedere i rischi della salute dei calciatori, non può essere la soluzione. Gli atleti stessi, che pur beneficiano economicamente del perverso meccanismo, stanno iniziando a prendere atto del superamento del limite.
Lo sciopero minacciato neanche due settimane fa da Rodri, centrocampista della sponda blu di Manchester e caldeggiato da tanti colleghi, quali Carvajal (Real Madrid) e Alisson (Liverpool), non c‘è ancora stato, ma potrebbe arrivare. Se si escludono la Bundesliga tedesca, a 18 squadre, e la Ligue 1 francese (che a 18 è scesa la scorsa stagione), Inghilterra, Italia e Spagna ancora non mollano e rimangono incollate ai campionati con 20 club partecipanti.
Il problema è quello di “un gatto che si morde la coda”. Il business del calcio spettacolo ha fame di investimenti e se si vuole giustificarli bisogna scendere spesso in campo. Per promuovere sempre di più l’intrattenimento calcistico verso il pubblico c’è bisogno di uno spettacolo continuo che ne faciliti la domanda.
I segnali c’erano già da tempo ma quanto accaduto negli ultimi giorni è un’ulteriore conferma che il giochino non può più continuare sulla strada tracciata, ormai da qualche anno, dai maggiori organi calcistici (UEFA e FIFA). Eppure, nonostante ciò, la nuova Champions League è passata da 32 a 36 club, il Mondiale per Nazioni da 32 a 48, la Coppa del Mondo per club – in programma dal 15 giugno al 13 luglio 2025 negli Stati Uniti – ne ospiterà 32 (tra cui Inter e Juventus) e la Nations League, che comunque mette in palio un trofeo, tappa i buchi lasciati in un calendario che toglie il respiro ai tifosi, figuriamoci ai protagonisti.
E allora c’è poco da stupirsi per i troppi i giocatori in infermeria. L’ultimo della lista è stato Nicolò Barella (e poche ora prima di lui è toccato anche a Kylian Mbappé), ma se ci guardiamo indietro e nemmeno di troppi giorni l’elenco si fa lunghissimo. Da Rodri del Manchester City (che si è rotto il legamento crociato nel corso del match contro il Liverpool), a Marc-Andrè ter Stegen del Barcellona (grave infortunio al tendine rotuleo) passando per Ruslan Malinovskyj del Genoa (che ha riportato una lussazione articolare e una frattura del perone) sono davvero troppi gli “stop” che i club di tutto il mondo hanno dovuto e devono tuttora sopportare.
Ma se i match per adesso non diminuiscono, bisognerà almeno concentrarsi sulla preservazione della salute dei calciatori. Alcune cose sono già state fatte ma molte altre sono ancora da fare. “Conte ha cambiato la nostra mentalità…per noi ogni partita è importante come se fosse una finale di Champions League” ha detto Lobotka ai microfoni di Sky dopo Napoli – Como di ieri sera. E allora se è troppo complicato percorrere la via della rotazione della rosa per l’importanza di ogni match, bisognerà almeno concentrarsi maggiormente sulle preparazioni fisiche con attenzione ai recuperi tra una partita e l’altra.
Inoltre, si deve cercare di “staccare la spina dalla partita” anche dal punto di vista mentale (per riposare ed evitare di stressare troppo mente e fisico) e il ritorno in campo dopo aver subito infortuni deve essere più regolamentato, senza forzare i tempi di recupero, perché la tecnologia viene in soccorso a tutti.
Si gioca troppo? Sicuramente. Si può giocare di meno? Al momento no. E quindi bisogna fare di necessità virtù per evitare che il calcio diventi una vera e propria ecatombe, con la salute degli atleti che deve tornare ad essere messa in primo piano.
L'articolo Il calcio si sta “rompendo”: si giocano troppe partite proviene da Globalist.it.